Olivia Fox (foto 7news.com)
Olivia Fox (foto 7news.com)

Olivia Fox verrà ricordata: è stata la prima a cantare l’inno australiano, Advance Australia Fair, nella lingua della Eora Nation, la tribù che abitava attorno alla baia di Sydney.

E’ capitato a Sydney, due giorni fa, prima di Australia-Argentina, ultimo match del Tri Nations di rugby, un’altra tappa nel processo di riconciliazione tra l’Australia bianca e l’Australia dei Nativi.

Un momento storico e di portata globale vent’anni fa, quando Cathy Freeman, aborigena, conquistò il titolo olimpico dei 400 davanti al mondo e a un pubblico la cui entità nessuno ha dimenticato: 112.524.

Nel 1994 Cathy, dopo la vittoria nei Giochi del Commonwealth, sventolo la bandiera aborigena, nera, rossa e con un gran sole giallo, e venne severamente redarguita.

Ora quei colori e quei simboli ancestrali vengono orgogliosamente esposti: la nuova maglia degli australiani ne è ricca.

Sei anni dopo, la più grande atleta aborigena, dopo Evonne Goolagong, era diventata l’immagine dei Giochi e delle scuse porte a un popolo perseguitato, emarginato, sottoposto al “ratto” dei bambini, affidati a famiglie o a istituzioni bianche.

L’Olimpiade era l’occasione, e la vetrina migliore per dare una ripulita al passato. E venne ben sfruttata.

Quella del Parksouth di Parraamatta, sobborgo di Sydney, è stata una “prima” ma avrebbe potuto esser preceduta, tre settimane fa, dal “protocollo” della partita decisiva dello State of Origin, il tradizionale derby di rugby league tra Queensland e New South Wales, uno di quei momenti, con la Melbourne Cup di galoppo e la Gran Final di football australiano, in cui il paese si ferma, dalle città della costa ai deserti profondi, ma pressioni politiche bloccarono l’iniziativa.

Reminiscenze del vecchio slogan “White Australia”? Basta dare un’occhiata ai volti e leggere i nomi di chi gioca, gareggia o va in pista per l’isolona per capire che le cose sono molto cambiate.

Cominciarono a cambiare quasi settant’anni fa: i più vecchi ricorderanno, e i meno vecchi avranno letto, quel che avvenne nel ‘52 ai Giochi di Helsinki: al momento della premiazione di Marjorie Jackson (oro nei 100 e, quattro giorni dopo, anche nei 200) tutti attendevano il “God Save the Queen” (Elisabetta era regina da cinque mesi, vale a dire dalla scomparsa di suo padrei) e invece giunsero le note del giovane e ancora ufficioso “Advance Australia Fair”.

La musica, e le parole che la accompagnano, attraversano e hanno attraversato la storia dello sport, una delle attività umane che va di pari passo con la storia del mondo.

L’Irlanda del rugby ha due inni: Soldiers Song, l’inno della Repubblica, e Ireland call perché spesso capita che nella squadra giochino anche uomini delle sei contee dell’Irlanda del Nord, parte del Regno Unito.

Il passaggio dal marziale, e non troppo vagamente nazionalsocialista, Die Stem a Nkosi Sikelele iAfriika (in sei lingue, compreso l’afrikaans dei vecchi padroni boeri), ha segnato il passaggio, scandito da Nelson Mandela, dall’era dell’apartheid a quella dell’uguaglianza, almeno formale.

E il riconoscimento dedicato a una civiltà preesistente a quella dell’arrivo dei bianchi si riflette nell’inno della Nuova Zelanda/Aotearoa: la prima parte di God defend New Zealand è in maori, la seconda in inglese.

Con la sua performance, accompagnata dalla suggestione di una chitarra acustica, Olivia Fox non ha fatto che imitare quel che è già in uso da tempo, al di là del mare di Tasman.

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