Harry Edward al ritorno dal passato

Il primo velocista britannico medaglia olimpica sui 100 metri

Il più grande velocista che io abbia visto” disse Harold Abrahams quando qualcuno gli chiese del primo sprinter britannico salito sul podio olimpico dei 100.

Harold, di radici ebraico-lituane, non ebbe esitazione a indicare Harry Edward che aveva la pelle scura, il primo nella storia dei Giochi a raccogliere medaglie nell’una e nell’altra distanza.

Abrahams gli era stato vicino nella sua prima avventura olimpica, ad Anversa 1920, il “momento di gloria” per Harry, l’esordio senza particolari citazioni per il giovane Harold, poco più che ventenne quando andò a calcare la carbonella dello stadio intitolato al comandante del corpo di spedizione americano in Europa, John Pershing.

Le vicende di Harry, che si srotolano in tutti i capitoli di quello che Eric Hobsawm chiamò “il secolo breve”, riafforano grazie all’autobiografia conservata nel centro di studi sociali e etnici di New Orleans. Titolo e sottotitolo sono eloquenti: “Quando ho passato la Statua della Libertà sono diventato nero/Autobiografia di un ex-europeo”.

Europeo ancor prima che britannico: Edward nasce nel 1898 nella Berlino guglielmima. La madre è un’insegnante di piano originaria della Prussia, il padre è un suddito britannico che viene da una delle Isole Sottovento, Dominica.

In cerca di fortuna, ha lavorato a bordo di transatlantici e a Berlino ha trovato occupazione come intrattenitore, prima in un circo, poi in una serie di locali e di ristoranti.

La vita di Harry è scandita dal calendario e dall’orologio della storia: sedicenne, è uno dei protagonisti dell’inaugurazione dello stadio che avrebbe dovuto ospitare i Giochi del 1916: secondo nei 100, primo nei 200.

È il 28 giugno 1914 e poche ore prima, a Sarajevo, Gavrilo Princip ha ucciso Francesco Ferdinando e sua moglie Sofia. È l’estate della mobilitazione, della guerra. Harry non ha mai visto la Gran Bretagna ma i documenti dicono che è un nemico. Finisce nel campo di internamento di Ruhleben, nei pressi di Spandau. Il nome – Vita Riposante – tradisce la realtà: freddo, privazioni, cibo che diventa sempre più scarso.

Dopo l’armistizio arriva a Londra: ha vent’anni, è solo ma è sveglio e poliglotta. Vive dando lezioni di tedesco e di francese, corre per i Polytechnic Harriers, passa le selezioni dell’Amateur Athletic Association per i Giochi Olimpici di Anversa, e il 16 agosto 1920 è al via di una controversa finale: lo starter interrompe i rituali di partenza di Charley Paddock e quando molti pensano che stia per dare un “al tempo”, dà fuoco alle polveri della pistola.

A metà strada – racconta Harry – mi ritrovai quattro piedi (un metro abbondante) dietro, spinsi come un dannato, mi riportai sotto e dopo il traguardo ebbi la sensazione di essere davanti. Passò molto tempo prima che fosse annunciato il risultato”.

Primo il texano Paddock 10″8, transitato nella storia per il suo balzo sul traguardo, secondo Morris Kirksey 10″9, terzo Harry Edward 10″9, quarto Jackson Scholz 10″9.

Scholz mi disse che non aveva dubbi: la partenza era stata falsa”. Quattro giorni dopo Harry finisce terzo anche nei 200, un decimo da Allen Woodring, in rimonta su Paddock: 22″0 gli americani 22″1 lui.

È una delle star dell’atletica britannica: esiste una foto, scattata nel 1922, quando riceve i complimenti e la stretta di mano di Giorgio V, in bombetta e con il programma delle gare sottobraccio.

Ai campionati dell’AAA ha appena centrato uno Slam che nessuno uguaglierà: in meno di due ore, vittorie nelle 100, 220 e 440 yards. Ma con le poche ghinee rimediate in gare ad handicap o a inviti – e con il timore di una squalifica per professionismo – non si campava.

Approfitta di un invito per una gara allo Yankee Stadium ed emigra negli Stati Uniti, offre risultati deludenti e annota che l’etichetta che gli viene appiccata addosso è “negro”.

Non c’era abituato. Anni di vagabondaggi: mentre la Grande Depressione mette in ginocchio l’America, Harry prende in gestione il Negro Theatre di New York e mette in scena il primo Macbeth con un cast di pelle scura.

Dopo la seconda guerra mondiale, durante la quale lavora nel servizio razionamento, viene inviato in Grecia, scossa dalla guerra civile, nell’ambio del Piano Marshall e sul via del ritorno riceve un riconoscimento.

Durante uno scalo dell’idrovolante, a Poole, un agente esamina il passaporto: “Ma lei è Harry Edward dei Poly Harriers, il vecchio campione britannico”. La sua fama non si era disciolta.

Spero che la mia storia, tesa ad abbattere ostacoli razziali possa provocare ispirazione e contribuire a riforme e cambiamenti”: è l’ultimo paragrafo di un’autobiografia che ha rivisto la luce, 250 pagine di memorie che Harry ha steso attraversando tre quarti di secolo, prima di un ultimo atto che, curiosamente, va in scena dov’era nato, in Germania: un infarto lo abbatte mentre è in visita alla sorella.

Il New York Times gli concede un piccolo ricordo, il New York Amsterdam News, diffuso nella comunità nera, maggior spazio. I giornali inglesi ignorarono l’addio alla vita di Harry, il primo con le ali ai piedi.

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