Naftali Temu (foto Getty Images)
Naftali Temu (foto Getty Images)

La morte recente di Ben Jipcho spinge a far visita a quella prima generazione di magnfici kenyani e a chi aprì le danze: Naftali Temu, il primo oro di una miniera senza fondo.

Ora ditemi, ho battuto quel Clarke in Giamaica e dove sono le montagne a Kingston?”.

Naftali risultò più ispido nella replica che, poco prima, nel serrate finale sulla “sfinge” Mamo Wolde, sull’ultimo rettilineo dei 10000.

Si era innervosito quando qualcuno aveva mormorato che quella vittoria era venuta per condizioni molto favorevoli a lui, molto sfavorevoli all’uomo che aveva una collezione di record mondiali più spessa della Bibbia.

E le parole di Clarke, spettatore all’ultima pre-olimpica pochi giorni prima, erano servite a invelenire lo scenario: “Gareggiare a quest’altezza è ridicolo: Temu, Wolde, Martinez non avrebbero alcuna possibilità a livello del mare. Sarebbe necessario stare qui un anno e so che qualche sovietico lo ha fatto, in località russe, ma loro sono militari e possono permetterselo”.

Clarke, nato sull’oceano australe che bagna Melbourne con l’onda lunga che viene dall’Antartide, cominciava ad avvertire il tremore che gli serpeggiava lungo la schiena o stava tentando di rimuovere quel che era avvenuto due anni prima, a Tokyo?

Chi è nato sull’altopiano del Kenya si sente a casa sull’altopiano del Messico, ma due anni prima ai Giochi del Commonwealth di Kingston (al tempo ancora British Empire and Commonwealth Games), zero metri sul livello del mare, Naftali Temu aveva battuto sulle 6 miglia (l’equivalente in distanza “imperiale” dei 10000) l’aussie che spaccava i cronometri, che anticipava il futuro ma falliva gli appuntamenti: il bronzo di Tokyo sarebbe rimasto l’unico, misero alloro.

Clarke le aveva prese anche sulle tre miglia da Kipchoge Keino, per tutti già Kip e presto anche King, che aveva fatto le prove generali: tre miglia e miglio, vinto anche quello. Il Kenya era molto giovane e viveva il fermento febbrile di chi sta crescendo.

Qualcosa già si era intravvisto a Tokyo, con la corsa coraggiosa di Wilson Kiprugut, la prima medaglia (di bronzo) di un paese che aveva alle spalle meno di un anno di indipendenza: l’Union Jack era stata ammainata il 12 dicembre 1963, sostituita dalla bandiera con lo scudo e le lance dei masai, così languidamente cari alla baronessa Karen Blixen che li aveva incontrati portando viveri e munizioni ai gentiluomini che si dilettavano alla guerra con i tedeschi del Tanganyka e i loro ascari.

A Tokyo c’era anche un giovane Kip, quinto nei 5000 di Robert Schul e della spaventosa delusione di Michel Jazy: in Francia tutti davanti alla tv per quella vittoria che avrebbe dato grande orgoglio a Monsieur le General e all’ultimo attacco di Michel c’era chi intonò la Marsigliese.

Finì in uno scenario da alba tragica: Jazy infilzato anche ha Harald Norpoth e da un altro sconosciuto americano, William Dellinger: quarto. In quel finale che fu un parossismo, Keino gli arrivò addosso.

Temu era un Kisii, veniva da Nyamira, nel sudovest, dove si coltiva il tè dalle foglie di un verde metallico: terrazze che si sovrappongono l’una all’altra, sino a quando le balze si interrompono davanti all’immensità del lago Victoria.

A 19 anni lo portarono ai Giochi di Tokyo: 49° nella maratona, arrivato quando Bikila aveva già finito la sua scarna conferenza stampa, e ritirato nei 10000.

L’anno dopo, ai primi African Games, secondo nei 5000 dietro a Keino che avrebbe chiuso l’anno, a Auckland, strappando il record dei 5000 a Clarke prima che Ron, a Stoccolma, in quelle sue esibizioni in solitario, cronometro incorporato e passo metronomo, lo portasse a connotati quasi contemporanei: 13’16”6.

A Messico, fidando in condizioni ambientali casalinghe, sia Keino che Temu si erano proposti un programma micidiale: 10000, 5000 e 1500 per Kip, 10000, 5000 e maratona per Naftali.

E fu Temu a inaugurare quel pazzo schema di variazioni di ritmo che sarebbe diventato l’arma preferita e letale dei kenyani: un giro lento, un giro a rotta di collo. Perfetto per allungare la fila, stroncare: a 2200 metri di altitudine, un incubo, una ricerca affannosa di un respiro che fatica a esser pescato, ad arrivare a fondo.

Keino, colpito da crampi allo stomaco, perse il treno e si arrese. Alla campana, con Clarke ormai ridotto a “dead man walking” (dopo il traguardo, che passò sesto, inspirò ossigeno per dieci minuti, immoto, sdraiato sul prato, una delle immagini impietose tramandate da quei giorni), Wolde decise di attaccare a fondo.

Temu non tremò e lo infilò negli ultimi cinquanta metri. Portava il nome del sesto figlio di Giacobbe, che si coprì di gloria combattendo contro i Cananei: in ebraico, Naftali significa l’uomo che lotta.

Per la prima volta un podio olimpico venne occupato da paesi africani: il Kenya di Temu, l’Etiopia di Wolde, la Tunisia di Mohamed Gammoudi, fornendo del continente tutte le varianti etniche: nero, semitico, arabo.

Jomo Kenyatta, il padre della patria, gli regalò una fattoria. I tre uomini che Clarke aveva nominato nella sua presa di posizione contro l’altitudine finirono primo, secondo e quarto.

Nei 10000 la tattica funzionò, nei 5000 Gammoudi, soldatino peso mosca, non si fece fregare e Temu finì terzo. Davanti a lui, Kip. Naftali corse anche la maratona e finì lontanissimo da Wolde, 19°.

Trentacinque anni dopo, non possedeva gli scellini – al cambio, 630 dollari – per farsi dare un’occhiata alla prostata e così, quando lo portarono all’ospedale di Nairobi intitolato al vecchio presidente che esibiva lo scacciamosche come uno scettro, era troppo tardi.

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