Dana Zatopkova (foto The New York Times)
Dana Zatopkova (foto The New York Times)

Si dice che scivolando nelle tenebre, prime porte verso il nulla, tutto quel che è stato vissuto passi nella mente in turbinosi fotogrammi.

Se è vero, Dana Ingrova, poi Zatopkova, deve averne rivisti una successione che in quel momento, l’ultimo, devono esserle sembrati limpidi, intatti, un secolo breve e lungo, un eterno presente, una vita.

La Cecoslovacchia di Masaryk nata dalle ceneri ancora calde dell’Impero austroungarico, il tentativo di una democrazia di stampo occidentale, l’annessione dei Sudeti, l’occupazione tedesca, la collina di Strahov e il castello di Hradzcany diventati simbolo della ferocia di Reynard Heydrich, protettore di Boemia e Moravia, eliminato dai ceki che non si erano arresi e venivano dall’Inghilterra per alimentare un’anima mai sopita, l’orrore di Lidice, spazzata e cancellata per rappresaglia, gli ultimi mesi di guerra durissimi perché il Fuehrer, memore di quel che aveva detto Federico il Grande – “chi ha Praga, ha l’Europa” – aveva mandato il fedelissimo e gigantesco Schorner per l’ultima battaglia senza quartiere con l’Armata Rossa.

Tutto quel che era venuto deve esserle apparso un’alba, una speranza: il giavellotto trovato per caso, l’incontro con Emil che non era una bellezza ma gentile e appassionato questo sì, per di più, segno del destino, nato lo stesso giorno, lo stesso mese, lo stesso anno, il 19 settembe del ’22. Gemelle astrali che diventano marito e moglie: non capita di frequente.

Raccontano che Emil, campione olimpico dei 10000 e vice dei 5000, avesse abbandonato una di quelle barracks, caserme, che nell’austera Londra del ’48 servivano da Villaggio Olimpico per andare a comprare gli anelli dalle parti di di Piccadilly Circus. Forse si spinse in qualche botteguccia di Soho: i soldi in tasca non erano molti.

La più sobria delle apoteosi, il trionfo della coppia più prolifica della storia, avvenne quattro anni dopo, tra il 20 e il 27 luglio 1952, in un’estate finlandese grigia come gli impermeabili che Dane e Emil indossavano nelle loro libere uscite.

Il 20 Emil vinse i 10000, sedici secondi davanti all’amico ed eterno rivale Alaian Mimoun che a furia di sperare in Dio, come arricchiva il suo autografo, ebbe la sua giornata in una torrida giornata dell’estate australe, a Melbourne.

Il 24 Emil mise le mani anche sui 5000 in fondo a un finale selvaggio che si era aperto con il capitombolo di Chataway ed era vissuto in una sfida a denti scoperti e espressioni allucinate con Mimoun e con il tedesco Schade.

Era venuto, quello stesso pomeriggio, sotto la torre ardita dedicata a Matii Jarvinen, il momento di Dana che volle dal marito la medaglia appena conquistata come fosse un ferro di cavallo, una zampa di coniglio.

Si rivelò utile: in due superarono i 50 metri, la sovietica Aleksandra Chudina per un cenimetro, Dana per 47, record olimpico. Tre giorni dopo Emil concluse e chiuse il suo Grande Slam vincendo la maratona da esordiente.

Qualcun altro – Clarke, Viren – ci ha provato e ha fallito. E’ a quel 27 luglio che risale la foto di Emil che si allunga sui piedi perché Dana possa poggiare le labbra sulle sue. Una moglie, un marito, quattro medaglie d’oro. Nessuno come loro.

Prima di mostrare di esser longeva sino ai confini dell’immortalità, Dana rimase a lungo in scena: a 36 anni diventò primatista mondiale allargando a sette la collezione di famiglia; a 38 finì seconda Roma, a un paio di metri da Elvira Ozolina.

Insegnò l’arte del giavellotto in giro per il mondo e diede una forte mano ai progressi degli uomini e delle donne dal braccio d’oro del suo piccolo paese. Emil se n’è andato quasi vent’anni fa, Dana da pochi giorni, dopo esser entrata nel suo 98° anno.

Alcuni fortunati conservano, nella collezione di memorabilia, l’autografo di Emil: c’è la firma, l’indirizzo della casa di Praga, un omino che corre, una donnina che lo insegue brandendo un giavellotto.

 

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