Se il Club Paulista de Futebol ha due stelle sul suo stemma, il calcio non c’entra niente: il merito è di Adhemar Ferreira da Silva che diventò il più forte del mondo quando il calcio proprio non ci riusciva.
Peggio, era appena reduce dal Maracanazo, la giornata nera del 16 luglio 1950, scandita dai gol uruguagi di Pepe Schiaffino e Alcide Ghiggia. “La Gran Disgrazia” titolò “O Globo” listato a lutto.
Una sera d’estate del ‘95, in una strada di Goteborg, un incontro casuale: Adhemar era vicino ai 70, i capelli crespi erano diventati color dell’argento, era sempre diritto e bello.
Toccò a me indicarlo per quel che era, uno dei più grandi: Adhemar ringraziò sommesso ma compiaciuto, strinse qualche mano, sparì nella notte scandinava come spariva nella notte brasiliana quando in “Orfeo Negro” di Marcel Camus (musiche di Vinicius de Moraes) era la Morte.
Il personaggio che interpretava lo avrebbe ghermito di lì a sei anni, ma in Svezia aveva fatto in tempo a vivere il sorgere di una nuova alba, accesa da Jonathan Edwards.
Adhemar è stato un sacco di cose: l’iniziatore della tradizione brasiliana del salto triplo (cavallette più che canguri…), il campione che rimbalzò in quattro Olimpiadi (sino a Roma ’60), il vincitore di due edizioni consecutive dei Giochi (prima di lui, solo Meyer Prinstein, dopo di lui solo Jozef Schmidt e Viktor Saneyev che ne allineò tre, quasi quattro), il depositario di cinque record mondiali, sino a un 16,56 che, a sessant’anni di distanza, profuma ancora di modernità, il simbolo di un immenso paese che avrebbe potuto dare (e potrebbe dare) molto di più.
Veniva da una famiglia inevitabilmente povera (il padre lavorava ai binari della ferrovia, la madre era domestica) ed ebbe la fortuna di incontrare un tecnico tedesco, Dietrich Greiner, che ne intuì il formidabile talento.
Erano gli anni appena dopo la fine della guerra e il salto triplo viveva nel ricordo della saga scritta dai giapponesi Oda, Nambu e Tajima che avevano dominato i Giochi di Amsterdam, Los Angeles e Berlino. All’Olympiastadion Tajima aveva toccato il muro dei 16 metri, una misura fuori dalla portata di tutti per lunghe stagioni: dodici anni dopo, a Londra, allo svedese Arne Ahman fu sufficiente alzare sabbia a 15,40 per diventare il successore del piccolo saltatore di Osaka.
Sulla pedana di Wembley c’era anche Adhemar, numero tre del Brasile: Geraldo de Oliveira quinto, Helio Coutinho da Silva ottavo, lui, non ancora 21enne, quattordicesimo.
All’inizio di dicembre del ’50, in piena estate dell’altro emisfero, a San Paolo, Adhemar eguagliò Tajima: capitò al sesto salto, dopo che nel turno precedente un millimetrico nullo era stato meritevole di misurazione: 16.02. Nell’anno della tragedia causata dallo spietato Uruguay, a spese delle “cicale” brasiliane, un raggio di sole e un fremito di orgoglio.
Primatista in solitario sarebbe diventato l’anno dopo, allo stadio della Fluminense, concedendo ancora l’acuto – 16,01 – all’ultima prova.
A Helsinki, primo titolo con due record del mondo, 16,12 e 16,22 e altri due salti oltre il vecchio record.
La sera ebbe in premio una torta che portava le quattro cifre del trionfo. Leonid Sherbakov, primo di un’infinita tribù di sovietici, gli strappò il mondiale per un centimetro l’anno dopo, ma la risposta di Adhemar, per tutta la vita accanito fumatore, fu tonante: divenne il primo a saper approfittare delle condizioni concesse dall’altura messicana e ai Panamericani del ’55 raggiunse 16,56. Naturalmente al sesto salto.
Alla vigilia dei Giochi di Melbourne venne assalito da un terribile mal di denti, riuscì a trovare aiuto e sollievo da un odontoiatra dello stato di Victoria ma in pedana trovò il più inaspettato degli avversari: non un sovietico, ma l’islandese Vilhjalmur Einarsson (padre del giavellottista Einar Vihjalmsson) che al secondo turno passò in testa con 16,26.
Questa volta Adhemar non attese l’ultimo salto e andò a segno al quarto con 16,35. E per la seconda volta vide la bandiera con il globo e il singolare motto Ordem y Progreso e per la seconda volta udì quell’inno che non finisce mai, con ouverture rossiniana e svolgimento, esibendo quel sorriso buono che non l’abbandonò mai.