Paavo Nurmi (foto alchetron.com )
Paavo Nurmi (foto alchetron.com )

Paavo Johannes Nurmi venne al mondo a Turku il 13 giugno 1897, sotto il segno dei Gemelli, mentre Carl Gustav Mannerheim era responsabile delle scuderie dello Zar, finì in divisa (era povero: paga e rancio erano un lusso) quando il futuro maresciallo e padre della patria stava scalando i gradi dell’esercito imperiale e per la corona intraprendeva viaggi in una Siberia ancora inesplorata.

La Finlandia non esisteva, era un Granducato russo: conquistò autonomia e indipendenza sotto i colpi poderosi della storia, quando le due rivoluzioni del 1917 mandarono a gambe all’aria il mondo cristallizzato del privilegio: la Russia uscì dalla guerra con la pace separata di Brest Litovsk e la rivoluzione spazzò una società fondata sulla disuguaglianza.

Mentre precipitava questa valanga di eventi, Paavo era un soldato: occhi con leggere ombre di rancore, fronte bozzuta, tipica di chi ha sofferto la fame (lui, orfano di padre a 12 anni, la soffrì nelle strade di Turku quando si arrangiava a dare una mano a chi ne aveva bisogno o a chi fingeva di averne), bocca quasi sempre chiusa: una maschera dura, pietrosa, da giocatore di poker.

Esercitazione tipica del piccolo esercito finlandese: corsa nei boschi di betulle, con moschetto, cartuccera e zaino pieno di sabbia. Una faticata. La sera, sulle spalle, le cinghie hanno lasciato segni che sembrano quelli di frustate. Fiato corto per ore, piedi gonfi, anima asfissiata.

“Nurmi, ti piacerebbe correre?”, gli domanda un ufficiale. “Corro già”. “Voglio dire senza zaino, come i Kolehmainen“. Paavo offre un’impercettibile alzata di spalle. Esser rassegnati significa anche rispondere sì.

I Kolehmainen sono quattro e sono famosi, Hannes più di tutti: ha corso in America e quando ne è tornato, con il portafoglio ben fornito, è diventato l’idolo di quel paese sul confine del nord vincendo l’oro ai Giochi di Stoccolma del ’12.

Grandi Olimpiadi, grandi campioni, grandi personaggi (Paoa Kahanamoku principe hawaiano codificatore dello stile libero, Jim Thorpe, pellerossa con sangue irlandese e francese che sarà facile depredare del suo doppio oro per una mazzetta di dollari che aveva rimediato giocando a baseball, Avery Brundage miliardario prossimo padrone del Cio con simpatie per la Germania di Hitler, George Patton generale d’acciaio), grandi gare.

La più bella, i 5000: testa a testa tra Kolehmainen e Jean Bouin, il piccolo Ercole di Marsiglia che, portaordini, cadrà ventiseienne nel primo autunno di guerra, con ogni probabilità vittima del fuoco amico. La vittoria, per un soffio, è del primo grande figlio di Suomi e l’emozione è cristallizzata in un’immagine che ha quasi un secolo ed è freschissima.

Paavo non è di quelli che si fanno travolgere dalle onde delle emozioni, perlomeno non è uno che lo dà a vedere, ma quel nome deve fargli scattare qualcosa in testa. Vittoria, fama, soldi: ne aveva sempre visti pochissimi, lui. E pare che Hannes ne abbia rimediati, trasferendosi negli Stati Uniti.

Nel 1920 ha ventitré anni, il mondo sta uscendo dalla guerra atroce e definitiva (non ce ne saranno altre così, scrivono gli illusi) e i Giochi possono essere il segno di una rinascita. Giochi postbellici, con tanti assenti, rimasti nelle trincee del fronte occidentale, nella guerra di movimento a oriente, sulle montagne italiane, in mare, ospitati da una delle città martiri, Anversa.

Modestissimi per strutture: praticamente l’intero programma si svolge nel campo costruito dalle truppe americane e intitolato al comandante del corpo di spedizione in Europa, il generale John Pershing che si era fatto le ossa sorvegliando il confine mentre il Messico era percorso dai lampi della rivoluzione.

La storia olimpica di Paavo non comincia bene: otto anni dopo, Joseph Guillemot vendica la sconfitta di Bouin, nei 5000, infilandolo negli ultimi 200 metri su ritmi, attorno ai 15’, anche al tempo non irresistibili.

Il francese è un tipo curioso, specie se messo a confronto con l’ascetico Nurmi: fuma un pacchetto di Gauloises al giorno e prima di prendere il via sorbe un misterioso beverone che si rivelerà un cocktail di acqua, zucchero e rhum.

La sua disponibilità ai piaceri della vita gli risulterà fatale tre giorni dopo: la finale dei 10000 viene anticipata di tre ore perché il re dei Belgi ha assunto impegni anche con un’esposizione d’arte e Guillemot si è appena concesso un pasto di parecchie portate.

Malgrado le cadenze non frenetiche, il processo di digestione è complesso, accompagnato da un tentativo disperato e velleitario portato dopo il suono della campana. Nurmi controlla, vince con un secondo e mezzo di vantaggio e si vede recapitare sulle scarpe quanto il piccolo ma vorace Guillemot aveva ingurgitato.

La bocca si atteggia appena a sdegno, prima di infilare la porta che lo conduce agli spogliatoi.

Nell’immensa panoplia dei nove ori olimpici e dei 29 record mondiali, il capolavoro di Paavo rimane il “double 1500-5000 di Parigi 1924, un’accoppiata che Hicham El Guerrouj eguaglierà ottant’anni dopo ad Atene, ma con ben altri intervalli di riposo: per il marocchino, quattro giorni, per Nurmi meno di due ore.

Con una dormitina, dice la leggenda, che pareggia quella di Napoleone a Marengo, prima che Desaix rovesciasse il senso dello scontro. La realtà è che Paavo, attento pianificatore, si era prodotto in una prova generale il 19 giugno, sulla pista vicina al giardino zoologico di Helsinki, firmando i record mondiali dei 1500 (3’52”6) e dei 5000 (14’28”2) nel giro di cinquanta minuti.

Il 10 luglio, sulla pista di Colombes, Nurmi badò al sodo: bruciò il primo giro dei 1500 in 58” guadagnando un vantaggio incolmabile, salito a 40 metri alla campana.

A quel punto, dopo aver dato un’ultima occhiata, si liberò del fidato cronometro che stringeva sempre in pugno (un vezzo, dicevano i critici, lui il ritmo lo possiede nelle fibre, nel cervello) finendo in souplesse a poco più di 1” dal suo fresco limite.

Sparito negli spogliatoi, ne riemerse meno di due ore dopo (grazie a una protesta del comitato olimpico finlandese, l’intervallo tra le due finali era stato lievemente dilatato rispetto alla crudeltà della mezz’ora prevista) per 5000 che si dimostrarono di ben altro spessore e difficoltà.

Paavo si ritrovò di fronte Ville Ritola, pure finlandese, di un anno più anziano, assai attivo negli Usa più che in patria e reduce dal successo sui 10000. Difficile ricordare un testa a testa più freddo e feroce: i due che non si scambiano uno sguardo procedendo quasi affiancati giro dopo giro, tutti gli altri persi a distanze tra il sensibile e l’abissale.

Nurmi consultò ancora una volta il cronometro prima di spedirlo sull’erba e aumentare la cadenza: Ritola non si perse d’animo, gli restò addosso, provò un assalto finale ma fu respinto, cedendo per un metro e mezzo e due decimi.

Che tra i due non corresse buon sangue, è testimoniato dai 10000 di quattro anni dopo ad Amsterdam: stessi interpreti, stessa trama, ma con una variante. E’ Nurmi che si appiccica a Ritola e lo tallona sino allo sprint, finale e vincente.

Nessun festeggiamento: raccolta la tuta, Paavo se ne va senza una parola, senza un sorriso, senza conceder tempo ai fotografi. Il fantasma finlandese è sempre più chiuso in se stesso e quel che lo attende non lo renderà più socievole.

Forte di una preparazione attenta, di un controllo del ritmo stretto nel pugno, con nessuno spazio concesso alle variazioni di andatura, in un lavoro che aveva fondamenti più nella quantità che nella qualità, faccia di pietra aveva portato a nove le medaglie d’oro della collezione, anche grazie a campestri e a prove a squadre cancellate dal programma e, ormai 35enne, aveva fissato il coronamento della sua vita di corsa nella maratona olimpica di Los Angeles ’32.

Non gli fecero neppure vedere il percorso: accusato di leso dilettantismo per aver raccolto denaro nei suoi tour statunitensi, specie della stagione indoor, non fu ammesso, ennesima e non ultima vittima di coloro che reggevano le sorti del Cio. Lo stesso capiterà 36 anni dopo a Karl Schranz, colpevole di portare un marchietto su un maglione.

Nel ’52 si lascia convincere a portare la fiaccola e ad accendere il fuoco di Olimpia nello stadio di Helsinki. Aveva perso i capelli (già in gioventù presentava profonde stempiature, ben visibili nel biglietto da 10 markku, in circolazione sino all’avvento dell’euro) e il ventre piatto si era arrotondato.

Fu acclamato e si pentì della sua decisione. Preferiva guardare il mondo dal retrobottega di un suo negozio, silenzioso anche quando si inoltrava nella sua quotidiana norma di vita: tre chilometri al giorno, di corsa e poi al passo, sempre più lento. “Quando non ne sarò più capace, morirò”.

Fu di parola. Sul francobollo che stamparono in suo onore e ricordo, nel ’73, c’è il monumento in bronzo che gli avevano alzato, in vita, davanti allo stadio guardato dalla grande torre, alta quanto il lancio più lungo, 77 metri e 23 centimetri, dell’occhialuto Matti Jarviven.

Corsa di lunga lena e giavellotto nello stemma gentilizio di Suomi. Nurmi ne fu figlio esemplare e monarca silenzioso.

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