David Burghley (foto d'epoca)
David Burghley (foto d'epoca)

State attenti, con i soldi diventerete manichini”: David George Bronlow Cecil, lord Burghley, 6° marchese di Exeter, era un aristocratico che affondava le sue radici nobiliari sino all’Inghilterra elisabettiana (un suo avo era il segretario e il consigliere della regina che cambiò il corso storico de paese), era un conservatore convinto (viaggiava solo con la sua Rolls Royce, spesso spedendola via air cargo) che sedette nella camera dei Lord, e aveva visto lontano.

Sarà un purissimo caso, un accidente temporale, ma poco dopo il congresso di Baden Baden dell’81, quando il Cio cancellò la parola “amateur” per sostituirla con “elegible”, Burghley morì.

Nessuno aveva mantenuto così in alto lo sport amateur e l’ideale decoubertiniano”, scrisse nell’elogio funebre un illustre giornalista inglese di lungo corso olimpico, John Rodda.

E così, in questi giorni di continuo e periglioso cambiamento, viene naturale ricordare questo personaggio molto diverso che raccolse in sé le sfaccettature di un diamante: per poche ore, nel ’27, primatista mondiale dei 400hs prima di esser scalzato dall’americano John Gibson, campione olimpico sugli ostacoli bassi ad Amsterdam 1928.

Fu l’uomo che, per 40 anni, resse l’Associazione Atletica inglese (un vezzo: la sua Rolls era targata AAA1), per 30 la Iaaf, che fu al vertice organizzativo dei Giochi londinesi del ’48, l’Olimpiade austera della ricostruzione e della speranza, il primatista nella corsa attorno alla Great Court del Trinity College di Cambridge: l’attribuzione del record a Harold Abrahams, nella liberissima ricostruzione di “Momenti di gloria”, lo fece molto stizzire.

Per due volte provò a scalare la vetta più alta – la presidenza del Cio – e per due volte venne sconfitto dall’americano Avery Brundage che in gioventù non aveva nascosto simpatie per la Germania nazista.

Burghley aveva capito che se lo sport si fosse venduto avrebbe smarrito l’anima. Provò a battersi contro anche quelle prime e timide aperture che prevedevano il rimborso per il mancato guadagno (pochi dollari al giorno) e venne accusato di un integralismo avvinto come edera al suo censo, alle sue prerogative, al suo status, a una mentalità che ricordava le storiche parole del Duca di Wellington: “La battaglia di Waterloo è stata vinta nei cortili delle scuole”. L’elite comandava e il popolo andava all’assalto con la baionetta.

Di sicuro in quello che considerava un tempio non accettò mai mercanti e, di pari passo, lui, che non poteva essere accusato di simpatie per quello che avveniva al di là della Cortina di Ferro fu il maggior protagonista dell’approdo dell’Unione Sovietica e degli altri paesi socialisti nella famiglia della iaaf che al tempo aveva una sede londinese modesta..

Da noi i vecchissimi dell’atletica lo ricordano per la sua amicizia con Luigi Facelli e qualcuno l’ha trasformata in una vicenda degna de “Il Principe e il Povero”.

Nel ’48 invitò Luigi a Londra ma un traduttore molto improvvisato, in un negozio genovese di trofei e medaglie, diede un senso molto diverso alla lettera che Burghley aveva inviato al vecchio amico. “Dice che ti saluta”. E Facelli se ne rimase a casa.

Altri, meno assediati da anni che pesano sulla groppa, lo ricordano premiare David Hemery a Mexico ’68: quarant’anni dopo, un altro britannico aveva vinto una distanza nobile come i 400hs.

Era il 15 ottobre 1968 e il giorno dopo il protocollo prevedeva che fosse lui a mettere al collo le medaglie dei 200.

Quel che avvenne è troppo noto per un’ennesima ricostruzione. Una foto lo offre mentre, in precario equilibrio (l’artrite lo tormentava) guarda fisso davanti a sé: Tommie Smith e John Carlos alzano i pugni guantati di nero.

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