Marita Koch (foto archivio tedesco))
Marita Koch (foto archivio tedesco))

Canberra, Bruce Stadium, 4 ottobre 1985, Coppa del Mondo: la 4×400 della Ddr vince in 3’19”49 e Marita Koch dà l’idea di correre molto forte l’ultima frazione.

A occhio, 48”. Era 47”9. Tutto sommato, niente da stupirsi: l’anno prima, a Erfurt, record mondiale portato a 3’15″92, Marita era stata anche più veloce: 47”8. Tenebre rapide, improvvise.

Canto stridulo, quasi beffardo del Kokaburra. Lungo la strada che porta in città occhieggiano famiglie di canguri.

Stesso luogo, 6 ottobre, 14,11, ora zero. Colpo di pistola per i 400 donne: Marita Koch va via rapida, con quella sua corsa che era un prodigio di studio, di tecnica. Wolfgang Maier, allenatore e più tardi marito, sostiene di averle preso 10″9 ai 100.

Può darsi: Marita era capace di accensioni così rapide da permetterle di bruciare i tempi anche sui 60. Olga Vladykina prova a starle dietro ma ai 200, passati in 22″4, l’ambizione è frustrata. Meglio sfruttare la scia tracciata e lasciata dalla ragazza di Wismar, sul Baltico.

E qui arriva la partecipazione emozionale ed emozionata, fisica, di chi sta guardando: Marita transita ai 300, il tabelloncino cubico piazzato in curva sta lasciando i 33″ per transitare sui 34″ ed è a quel punto che la signorina Koch “perde” un po’ le gambe, remiga, accusa, chiude come può, come può lei, Marita: 47″60.

Il record mondiale di Jarmila Kratochvilova, 47″99 per conquistare il primo titolo mondiale in palio due anni prima a Helsinki, è demolito e spazzato nel tentativo – riuscito – di riappropriazione della corona, nell’imposizione del settimo sigillo: Marita aveva trovato posto per la prima volta nell’albo nel ’78, a 21 anni,, con il 49″19 che in cinque successive tappe aveva portato a 48″16: erano gli Europei di Atene, quando aveva affibbiato sette decimi alla possente boema.

E’ molto vero: chi assiste alla storia, difficilmente la coglie in tutta la sua portata. E’ necessario che i sedimenti del tempo si accumulino per capire sino in fondo, apprezzare, compiacersi di tanta fortuna.

In quello stadio assediato da diecimila eucalipti, non scatta nessuna isteria: Marita offre un sorriso gentile, sventola un braccio, dice di esser molto felice di quel che ha fatto e non ha nessun rammarico per quel che ha lasciato sull’ultimo rettilineo: fatale accusare il morso della fatica.

E’ molto felice anche Olga Vladykina, seconda in 48″27, terza di tutti i tempi in quel momento, quinta oggi: nel ’96, ad Atlanta, 48″25 di Marie Josè Perec; pochi mesi fa, a Doha, 48″14 di Salwa Eid Naser.

Ancora lo stesso luogo, 13 ottobre 2003, fase a gironi della Coppa del Mondo di rugby: tornare al Bruce Stadium è commuoversi, ma le lacrime non arrivano, non possono arrivare.

Anzi. ­”Dov’è finita la pista?”. “Quale pista?“.”Quella dell’85, del record del mondo di Marita Koch“. “Qui giocano a rugby a XV e a XIII. L’atletica si fa altrove“. Sembra un libro di Kafka o un film di Hitchcock: tentano di farmi passare per matto.

Ma non sono matto, cerco, fiuto, mi inginocchio e dove finisce il prato trovo una specie di piccola intercapedine e là sotto si intravvede un pezzo di gomma rossa. “La pista c’era: il problema è che gli anni sono passati e tutti l’hanno dimenticata“, mormora il mio nuovo amico, che si chiama Hook, proprio come Capitan Uncino.

Un paio di giorni dopo, visita all’Australia Sport Institute, tentano di fregarmi ancora. Dopo il tour nei laboratori, nei centri di ricerca,nelle palestre, mi portano a visitare un impianto nel bosco, a un chilometro dal Bruce Stadium, e il cicerone dice: “Su questa pista una german lady stabilì un record del mondo“. “Quanti anni hai, ragazzo?” “Trenta, sir“.

E allora nell’85 ne avevi dodici. Dovresti ricordarti quel nome, quel record“. “Non so di quali gare stia parlando, sir“. Forse non è un libro di Kafka, è solo un dolce racconto di Bradbury dove il filo della memoria deve essere recuperato, filato, riannodato.

Dunque, il 6 ottobre 1985, io ero là, sulla tribuna del Bruce Stadium e…” “Ma lei è già stato qui, sir? Davvero?  Di solito qui non viene mai nessuno. Vanno a Sydney, ad Ayers Rock, che ora si chiama Uluru, ai Dodici Apostoli, ma qui… E’ strano. E tornarci, poi… Comunque, mi racconti di quel 6 ottobre“.

E così è finita che gliel’ho raccontato e, come il pianista di Casablanca, continuo a raccontarla e quando mi rendo conto che, a palmi, è passato un terzo di secolo, mi viene voglia di andare a Rostock – lei correva per l’Empor – e fare una bella chiacchierata con Marita.

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