Qualche anno fa, in fondo a un lunghissimo referendum promosso dal Times, “Toro Scatenato” è stato proclamato il miglior film a soggetto sportivo della storia del cinema mentre “Momenti di Gloria” è finito terzo.
Nel frattempo l’ho rivisto almeno quattro volte e credo di essere arrivato a quota venti, nelle mie zone molto alte, insieme a “A qualcuno piace caldo” e “Il mucchio selvaggio”.
Ogni volta mi vengono le lacrime e invecchiando la cosa risulta anche più facile.
Superano le lacrime, intendo, i confini delle palpebre quando Sam Mussabini (Ian Holm) ode in lontananza “God save the King”, assesta un pugno alla paglietta, la sfonda e dice “Figlio mio”.
Si può esser padri anche con linee di sangue molto lontane o, come dicono gli inglesi, esser parenti solo per via d’Adamo.
Cominciamo dal titolo, “Chariots of Fire” che non ha nulla a che vedere con “Momenti di Gloria”.
“Chariots of fire” viene dalla Bibbia, la definizione compare due volte nel libro dei Re e fa parte di un verso di William Blake, poeta e illustratore.
“Bring me my chariot of fire” è finito in quel bell’inno che si ascolta anche nel film, Jerusalem, e che abbiamo ascoltato alla cerimonia d’apertura dei Giochi di Londra 2012.
Gli italiani di Bibbia e di Blake sanno poco e niente, e hanno anche la dannata inclinazione a stravolgere i titoli originali.
Alcuni esempi: il capolavoro di John Ford, “The Searchers”, Quelli che cercano, è “Sentieri selvaggi”.
Indimenticabile è l’etichetta-spaghetti western che venne appiccicata su un magnifico film “Jeremiah Johnson”, con Robert Redford: “Corvo Rosso non avrai il mio scalpo”. Fine della digressione.
“Chariots of Fire” compie 40 anni (Oscar come miglior film nel 1981) e se qualcuno sbuffa o dice che è un po’ noioso, il caldo consiglio è che rifletta sulla propria vita o si rivolga ad altri filoni: i cinepanettoni, i film di Verdone, quelli cuciti sui videogame, i rozzi e inguardabili remake di capolavori come Fahrenheit 451 o Rollerball.
Messaggio, oggi incomprensibile: lo sport può produrre valori, virtù, amicizia, può essere l’origine di razionali ostinazioni.
Lo sport, soprattutto, è una parentesi della vita: la scena finale, in cui Abrahams (Ben Cross grande attore inglese recentemente scomparso) attraversa il salone di Victoria Station (silenzio, rumore dei passi) è anche l’addio alla giovinezza.
Ha ottenuto quel che voleva, ora lo aspetta qualcos’altro. Parigi chiude una fase, ne apre un’altra. L’esistenza, una volta, era chiara, semplice, una linea retta come quella che percorre Harold, ebreo di radice lituana, una specie di rotta elittica che porta allo stesso punto, come quella percorsa, da un capo all’altro della vita, da Liddell (Ian Charleson), scozzese di fede profonda e di apostolato sincero, nato e morto in Cina.
All’apparenza, un film storico, calato in un’Inghilterra reduce dal massacro della Grande Guerra (“io leggo l’elenco e piango”, dice il rettore alla cena che inaugura l’anno accademico), di perfetta misura nei bioi paralleloi dei due protagonisti, di critica alla dimensione conservatrice che veniva respirata e imposta nell’esclusività dei college.
Mussabini è un outcast, lo sa bene, come sa che un’Olimpiade si vince con il lavoro duro, una dimensione che non appartiene alla visione wellingtoniana dei cortili di scuola.
L’altro aspetto che rende unico il capolavoro di Hugh Hudson è formale, non male quando la forma è garanzia di sostanza.
Tutto è perfetto, nulla è approssimativo: la fotografia di David Watkin, il montaggio di Terry Rawlings, i costumi di Milena Canonero (secondo Oscar, dopo quello per “Barry Lindon” di Stanley Kubrick, prima che l’Academy la premiasse ancora per “Marie Antoniette” di Sofia Coppola e per “Grand Budapest Hotel” di Wes Anderson), la musica di Vangelis che si alterna a temi tradizionali, religiosi e a uno scampolo di Gilbert and Sullivan, Mikado.
Raccontano che quando stavano per essere girate le scene delle gare olimpiche a Colombes (lo stadio vero, non computerizzato),la costumista Milena Canonero, nata a Torino e laureata a Genova, invitò le comparse (20.000, vere anche quelle) a rovistare in casa per rintracciare una vecchia bombetta, un gilet, un cappellino con la veletta, magari una finanziera del bisnonno. Risultato perfetto.
Inevitabile pensare a ciò che è stato confezionato, nell’ambito di quella che viene chiamata fiction, su Dorando Pietri, Pietro Mennea, Fausto Coppi, Gino Bartali.
Viene in mente il verso, ignorato da chi ha prodotto quella roba, di un grande poeta inglese, Wystan Auden: la verità, vi prego, sull’amore.
Chi ci ha dato “Chariots of fire”, ha detto il vero e ha amato quel che fatto, anche se Lord Burghley, marchese di Exeter, dopo esser stato informato sullo stato delle cose, espresse feroci critiche sulla versione offerta del certame di Caius.
Uno dei pochi a non aver mai visto il film. Riposi in pace ugualmente.