Emilio e Dorando: un racconto possibile

Le imprese dei due atleti genovesi alle Olimpiadi di Londra 1908

Dopo venti miglia, Emilio si asciugò il sudore che correva giù dal berretto e rallentò leggermente il ritmo della pedalata: un caldo dannato, umido, ma Dorando stava andando forte, stava rimontando su Charles Hefferon e aveva un gran margine su Johnny Hayes, un abisso sugli altri.

Tom Longboat, l’indiano della tribù Onondaga, stava procedendo come un automa, gli inglesi si erano schiantati da soli, con quelle prime dieci miglia a ritmo assurdo, con quel calore insolito, umido, vicino ai 100° gradi loro.

Quando erano partiti dal parco di Windsor, una strana atmosfera: sarà stato per quello che era successo il giorno prima, si disse Emilio, dopo una finale dei 400 che aveva riaperto l’ostilità tra la Corona e i coloniali americani: tre di loro contro Whyndan Halswelle, ufficiale scozzese, eroe nella guerra anglo-boera.

Sul rettilineo finale, Halswelle aveva mosso all’attacco di Carpenter, aveva ricevuto una spinta, aveva perso l’assetto di corsa: pista invasa da dirigenti inglesi, freddezza e aplomb che erano andati a farsi benedire, squalifica di Carpenter, decisione di ripetere la gara il giorno dopo.

Emilio aveva avvertito tensione, senso di attesa, quando quella mattina aveva pedalato – ultimo tratto in salita, prima sudata – verso il parco di Windsor e lì aveva trovato Dorando che scalpicciava con il suo passo corto non per scaldarsi – ne avrebbe avuto di tempo, quel 24 luglio 1908 – ma per sforbiciare l’emozione dell’attesa.

Emilio Lunghi (foto archivio epoca)
Emilio Lunghi (foto archivio epoca)

Your name?” gli chiede un giudice. “Emilio Lunghi”, risponde. Il giudice scrive il nome accanto a quello di Dorando Pietri Italy su un foglio che riporta i concorrenti, i numeri di gara (a Dorando hanno dato il 19), i nomi dei loro accompagnatori, la sigla della bicicletta che potranno ritirare tra poco.

Edoardo VII e la regina Alexandra erano arrivati poco dopo e dall’alto avevano inviato cenni regali, contenuti sorrisi al gruppo dei maratoneti.

A Emilio, che amava leggere tutto quel che gli capitava a tiro, sembra un momento come quello dei “morituri te salutant” e poi ride di se stesso, di quell’immagine. Qui c’è solo da correre, mica da prendersi a colpi di gladio e di tridente.

Va a dare una pacca a Dorando. “Non fare belinate, eh?”. Dorando ha la bocca appiccicata. Scuote la testa e nient’altro. In testa si è messo una specie di cencio bianco. E’ teso. Meno male che tra poco partono.

E ora erano passate due ore buone, sulla strada che portava verso Sheperd’s Bush c’era una siepe di folla compatta e Dorando era da medaglia e, per come si erano messe le cose, sembrava fosse almeno dello stesso tipo che aveva conquistato Emilio tre giorni prima, negli 800, dietro Melvin Sheppard, un tipo sicuro di sé, anche troppo, con quella faccia ossuta, da cane, che non si era fatto impressionare dalla sparata dell’inglese, quello con due cognomi (Fairbairn-Crawford si chiamava, uno di buona famiglia, evidentemente…) che era andato via come un ossesso, era passato alla campana in 53” ed era saltato per aria. Logico.

Emilio sapeva che con l’americano c’era poco da fare e così aveva badato a tenere a bada gli altri beccando 10 yards da Sheppard che aveva fatto il record del mondo, ma prendendo la medaglia d’argento, la prima dell’atletica italiana ai Giochi.

Era stata una bella soddisfazione e una rivincita dopo i 1500: il secondo miglior tempo nelle batterie era stato il suo, ma passavano solo i vincitori dei turni. Bella fregatura.

Era stato allora che aveva deciso di dare una mano all’omino: cercavano un volontario che lo tenesse d’occhio, che magari gli allungasse qualche consiglio e si offerse lui. Buono per tutte le stagioni, Emilio: velocità, mezzofondo, fondo, ostacoli, corse su strada.

Cosa potevano fargli 42 chilometri in bicicletta? Dorando gli destava impressioni diverse: a volte lo vedeva smarrito, a volte sicuro di sé. Ricordava quella volta che lo aveva battuto in una gara sui 20 km e Dorando ci era rimasto malissimo. “Dai, capita”. “Se i belli come te vincono anche nella gare per stortignaccoli come me, meglio che smetta”.

Emilio aveva studiato da motorista navale, conosceva le distanze, anche quelle espresse in un sistema diverso dal metrico decimale. Si orizzontava bene. “Se il cartello dice che siamo al 22° miglio, significa che a occhio mancano sei chilometri e mezzo”.

Dorando, con quelle gambe corte, non è un campione di eleganza, ma sta andando bene, è ancora padrone di sé. Là davanti c’è qualcuno: ma non gli avevano detto che Charles Hefferon, il sudafricano, aveva un vantaggio incolmabile, quattro minuti su Dorando?

E’ invece è là, ha occhi buoni, Emilio, 150 metri, non di più, e va avanti al piccolo trotto, in rottura piena. Sembra ubriaco e dopo gli racconteranno che avevano provato a rianimarlo ficcandogli in bocca il collo di una bottiglia di champagne.

Saltato per aria. “Vai sul tuo ritmo”, prova a gridare Emilio, ma le parole vengono risucchiate dal mormorio sempre più spesso della folla che si sventola. Era da un po’ che voleva avvertirlo: troppa fiducia, troppe energie buttate. Ma cosa crede, che lo stadio sia dietro l’angolo? O qualcuno gli ha suggerito che ormai è fatta, che manca pochissimo?

Se continua così, schiatta”. Vede lo stadio, deve vederlo anche Dorando se non passa il suo tempo a guardarsi le punte dei piedi. “Ora mi avvicino e gli dico di star tranquillo”.

Un poliziotto e un giudice, in mezzo alla strada, segnalano che gli accompagnatori devono deviare, infilarsi in una stradicciola, e da lì arrivar allo stadio seguendo le indicazioni che verranno date da altri loro colleghi.

Emilio vede Dorando che ha cominciato a ciabattare, quasi a correre sul posto, Manca un chilometro e mezzo, quasi due, visto che deve fare anche quasi un giro di pista per arrivare giusto davanti alla tribuna reale. Ma è un duro, ha un’occasione grande come la vita, ce la farà. Ce la deve fare.

Emilio infila la deviazione, sbuca in una piazzetta, da lì piega verso destra. Non vede frecce e non c’è nessuno a dare una mano. Scende dalla bici, si guarda attorno: casette a schiera, lo stadio non si vede più e il quartiere sembra disabitato. Tutti sul viale a vedere la maratona. Non sa cosa fare, guarda l’orologio.

Ormai Dorando dovrebbe essere entrato nello stadio. Si sente smarrito, prigioniero. Tanto vale tornare indietro, chiedere aiuto. Altri tre minuti passati: per piano che vada, Dorando è dentro, sta per vincere. Decide di ripercorrere il cammino, di tornare sulla avenue ed è in quel momento che incrocia altri in bicicletta come lui. Parlano inglese. Si accoda, grazie a loro trova il passaggio, un buco, una fenditura nel muro che gli aveva sbarrato il passo.

Dorando Petri (foto archivio epoca)
Dorando Petri (foto archivio epoca)

Ora è sotto lo stadio, appoggia la bicicletta, sventola la coccarda che gli avevano dato alla partenza. Può entrare ed è accolto da un mormorio profondo, come quando il mare si ritira dai ciottoli delle sue spiagge.

Vede uno che corre, sente applausi, fischi, vede, appena oltre la linea del traguardo, un capannello: giudici, poliziotti, uno con il berretto che regge il megafono, un uomo che ha posato sull’erba una valigetta da dottore. “I am… italian athlete”, dice a chi tenta di respingerlo, mostra ancora la coccarda.

Lasciano che attraversi la pista, che corra sul prato, che giunga ad allungare il collo ai margini di quella piccola folla. Dorando è a terra, privo di sensi: il medico lo ausculta. Muove i piedi, torpido. Vivo, è vivo. Emilio prova a chiedere. Victory, winner: parole spezzate. Scrollar di teste. Non capiscono, non sanno.

Il piccoletto tutto in bianco che aveva visto alla partenza, arriva al traguardo. Applausi senza boati. Sente una mano che gli stringe forte il braccio. “Lei è italiano?”. “Cosa è successo?”. “Il suo amico è arrivato al traguardo, ma in fondo a un calvario. È caduto tre volte, si è rialzato, lo hanno aiutato. Non so cosa accadrà”.

Mi chiamo Emilio Lunghi, sono di Genova”. “Lunghi, l’ottocentista. E io sono Vittorio Pozzo, di Torino”. Un tipo compito, un appassionato, un vero sportsman, si vede al volo, ma ora lui deve occuparsi di Dorando.

Un’ora prima che esca dall’incoscienza, che Emilio riesca a chinarsi su di lui, John Hayes diventa il quinto vincitore delle maratona moderna, la prima corsa sui 42 chilometri e 195 metri.

Allora, ho vinto?”. Emilio non sa cosa dirgli. Ha vinto e non ha vinto. Secondo le leggi imposte da chi comanda, squalificato per l’aiuto ricevuto in quegli ultimi metri, in quell’eternità di quasi dieci minuti trascorsa dal suo ingresso nello stadio di White City al traguardo.

Ti hanno fregato, Dorando”, pensa Emilio, ma non riesce a dirglielo. Il giorno dopo, la regina Alexandra gli consegna una coppa d’oro: Dorando si è messo il vestito scuro e la cravatta a fiocco e si è pettinato per bene e Arthur Conan Doyle scriverà un magnifico pezzo in difesa del piccolo italiano. Bello e inutile.

E’ anche così che può nascere un sentimento di ribellione, un desiderio bruciante di far da soli, di diventare gentiluomini di fortuna, di trasformare la corsa in gusto per l’avventura, in lavoro, in modo per guadagnarsi la vita senza farsi schiacciare da chi ha deciso che lo sport è un mondo a parte, un club per gentiluomini, per privilegiati.

A Emilio era capitato più di una volta di dare un’occhiata ai giornali inglesi: nella Genova dell’età tardovittoriana e edoardiana, tanti commercianti, avvocati, medici venivano di là, erano gli anglo-genovesi.

Avevano persino fondato un club per giocare a calcio e a cricket, il Genoa, e qualcuno aveva fatto arrivare via nave, oltre a quelli tondi, anche strani palloni ovali. Su quei giornali ogni tanto si leggevano le storie dei grandi professionisti della corsa, una razza in via di estinzione da quando de Coubertin aveva iniziato a predicare la purezza del gesto e del suo fine, altrettanto disinteressato.

E a Dorando, dalle sue parti, qualcuno aveva raccontato la storia di Carletto Ayroldi, il massiccio milanese che un po’ a piedi, un po’ in nave, era arrivato a Atene per la maratona del 1896.

Non l’avevano fatto correre perché aveva intascato qualche soldo nelle corse su strada attorno a Milano e naturalmente i più feroci nel rifiutargli l’opportunità erano stati i notabili italiani che erano entrati a far parte del Comitato olimpico internazionale appena nato. Mai mosso un passo di corsa, quelli.

Per l’uno e per l’altro, i giorni di Londra diventano lai linea di confine da oltrepassare, il muro da saltare. Lo fanno andando in cerca della loro America. Per Dorando, due viaggi intensi, febbrili, contrappuntati da gare su distanze disparate (ma sempre lunghe), sino a ridurlo a uno stato di prostrazione e al caldo consiglio di un medico: “Si fermi”.

Ma lui non si ferma, si sente professionista (lo dichiarerà nella lettera con cui accoglie, in piena serenità, il bando della federazione italiana) e accumula se non una fortuna certo una somma considerevole in fondo a tournée lungo le quali riesce a richiamare sia nelle arene indoor che ai Polo Grounds di New York grandi folle e a canalizzare ingenti scommesse.

E’ affascinante andare a rivedere le affiches, le vignette, le fotografie che sono iconografia di quel mondo lontano: per il gran Derby di Maratona, il baffuto Dorando è stato disegnato con la croce di Savoia sul petto, il francese Saint Ives con un cappello da medico di una commedia di Moliere, il pellerossa Longboat con un casco di penne, l’americano di sangue irlandese Maloney con un’arpa, Hayes l’usurpatore con il cilindro dello zio Sam, Shrubb con l’Union Jack.

Era un vertice, era un evento che, un secolo fa, ebbe la sua forte ridondanza mediatica, proprio come per i combattimenti di Jack Johnson, il primo nero campione del modo dei massimi. E nessuno s vergognava a dire che si correva per far quattrini: 5000 dollari al vincitore (il piccolo cameriere francese), 2500 al secondo, Dorando, che Ira Berlin onorò con una canzone.

Il giorno dei giorni di Emilio viene il 13 settembre 1909 a Montreal, ai campionati canadesi ospitati sulla pista dell’Aau: il tempo è di 1’52”4/5 sulle 880 yards.

Osservatori e cronisti presenti sostengono che Lunghi, tesserato per l’Athletic Club di New York, abbia alzato il piede dall’acceleratore a metà rettilineo consentendo così all’americano Frank Riley di arrivargli a quattro decimi.

Sheppard aveva sconfitto Emilio nella finale olimpica con un record mondiale (1’52”8) sulla distanza metrica e venne naturale considerare il tempo del genovese, che nella versione imperiale percorse 804 metri e 68 centimetri, un nuovo record del mondo.

L’accurata e formale codificazione dei limiti mondiali e della loro progressione divenne ufficiale solo con la nascita della Federazione Internazionale di Atletica, nel 1912, subito dopo i Giochi di Stoccolma. Di sicuro il tempo andò a libro come record dell’associazione canadese e, curiosamente, venne riconosciuto come record italiano solo nel 1927, due anni dopo la scomparsa del campione, stroncato da una malattia venerea.

Se dai suoi tour in Nord e Sudamerica Dorando tornò sufficientemente ricco per aprire a Carpi un Grand Hotel che ebbe scarsa fortuna (l’approdo successivo e finale fu Sanremo, dove gestì un’autorimessa e morì durante la seconda guerra mondiale), non è quantificabile il gruzzolo messo assieme da Emilio che, dopo 31 gare e 27 vittorie, fece ritorno a a Genova recando come dono per la madre un grammofono di quella marca che aveva come simbolo un cagnetto che, incuriosito dall’aggeggio, sbircia dentro la tromba.

Un secolo dopo la vittoria negata di Londra, Dorando ebbe la sua statua. Nata dalla mente classicheggiante di Bernardino Morsani, destinata a una piazza di Carpi nel culmine finale di celebrazioni che un generoso gruppo di lavoro portò avanti con tale pervicacia da provocare anche un invito a cena da parte di Elisabetta II.

Emilio non la ebbe in sorte malgrado il bozzetto fosse pronto e la collocazione decisa, nel piccolo giardino pubblico di fronte alla chiesa di piazza Alimonda, diventata famosa nel mondo per i sanguinosi scontri e per la morte di Carletto Giuliani durante il G8 del luglio 2001.

Lunghi era chinato, in procinto di prendere il via, nudo come un eroe greco. Il parroco si oppose e il ricordo di quell’Apollo rimane avvinto a un piccolo repertorio fotografico.

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