Kevin Mayer (foto Euro Sport)
Kevin Mayer (foto Euro Sport)

Ha fallito per troppa sicurezza a Berlino, è stato colpito dai crudeli strali della sorte a Doha, ma Kevin Mayer, bello e biondo come il Manfredi cantato da Dante, mantiene intatta la sua dimensione di uomo vitruviano.

Perfetto nelle proporzioni e metronomico: non è per caso studente in tecnica delle misure e della strumentazione all’università di Montpellier: 4563 il primo giorno, 4563 il secondo. I giorni sono il 15 e il 16 settembre 2018. Pura storia.

Un “record de dingue”, un record pazzesco è stato il titolo dell’Equipe che per quell’edizione del 17 settembre scelse di dedicare tutta la prima pagina all’impresa del biondo.

Un record pazzesco, sterminato, di una dimensione che mi ha fatto provare le stesse sensazioni che sentii scivolarmi dentro e addosso quando ad Atlanta vidi scritto sul tabellone 19”32: “Non mi sembra neanche un tempo sui 200”, dissi a me stesso e un paio di amici che avevo al fianco mentre Michael Hohnson andava ad appollaiarsi vicino al tabellone.

E così, quella domenica, verso le 18,30, quando sui risultati ho visto scritto 9126 ho pensato: “Non sembra neanche un punteggio del decathlon, più un’eccellente misura nel giavellotto”.

Sono troppo vecchio, mi sono detto, troppo cresciuto nella cultura degli 8000, Come Reinhold Messner. Non c’è montagna sulla terra alta come quella scalata da Kevin il Bello.

Un record costruito anche sulla strategia, sul controllo. A 2,05 Kevin smise: doveva affrontare i 400 che sono la sua bestia nera. E dopo aver valicato 5,45 si concesse solo una prova a 5,55: a quel punto aveva 80 punti sulla tabella Eaton e con il giavellotto poteva vibrare il colpo finale.

E l’ha vibrato. Dopo nove prove, 8421, dieci in meno di quelli che avevano dato allo scabro veterano Arthur Abele il titolo europeo a Berlino. A quel punto, solo l’attesa per capire dove l’avrebbe collocato, quel record.

Berlino, il luogo del fallimento del giovanotto nato non lontano da Parigi, ad Argenteuil, e di radici lorenesi denunciate dal nome crucco: 10”64 e primato personale e tre nulli, tutti uguali, sui 7,80, nel lungo.

Scusa, non potevi fare un salto in sicurezza 7,20, 7,30, una cosa così?”, gli domandò un caro amico francese orgoglioso di essere toscano e dotato di magnifico nome, Astolfo Cagnacci della France Press. “Ma io ero venuto per fare il record del mondo”, replicò Kevin.

Quaranta giorni dopo è arrivato il record nel luogo che non è la prima volta che ospita un riscatto. Settembre 1992, a Talence, Dan O’Brien raccoglie 8891 punti, sottrae il record a Daley Thompson. O’Brien era reduce dalla terribile delusione dei Trials: tre nulli nell’asta e fuori dalla squadra olimpica per Barcellona.

La cittadina, dipartimento della Gironda, è uno di quei piccoli-grandi templi – come Gotzis, come Ratingen – dove i multipli trovano il loro giardino e un pubblico pieno di passione, ricco d’amore.

Da quando Kevin è finito secondo a Rio, a 59 punti da Ashton Eaton, ho cominciato a sentire una forte invidia per la Francia, capace di capire, di curare, di allevare un puledro così.

Apro e chiudo una fulminea parentesi: l’invidia per la Francia non si risolve con Mayer ma tocca altri e vasti campi. Hanno capito, investito, progettato, hanno persino inventato dei triathlon ficcati nel programma dei meeting di Parigi e di Montecarlo e hanno digerito, senza alti lai, senza strappamento di vesti, senza veleni, l’autocastrazione di Berlino.

E ora, eccoli, i Galli-Galletti, padroni, artefici, demiurghi del più forte atleta del mondo, capace di vincere sei prove su dieci, di pareggiarne due, di concedersi, in un weekend da leoni, quattro record personali (al coperto nell’asta ha 5,60 ma non stiamo a sottilizzare), di offrire una sequenza di numeri che sembrano note scritte su un foglio da musica, vergati dalla penna d’oca di Johan Sebastian Bach: 10.55, 7.80, 16,00 (ha 16,51 ed è impressionante per chi è molto normale, a palmi 1,85 per 77), 2,05, 48.42, 13.75 (con sensibile vento contrario), 50,54, 5.45, 71,90, 4.36.11.

E rileggere – e riflettere – significa anche capire che Kevin è un decathleta nuovo, con i suoi picchi, certo, ma che fa dell’equilibrio la sua forza. Non sarà mai un velocista da 10.20, un lunghista da 8,20, un quattrocentista da 45, ma avrà sempre in mano la misura giusta per le dieci puntate della sua storia campale.

Quello stesso giorno, su quel viale alberato nei pressi del Prater viennese, Eliud Kipchoge è stato prodigioso, Kevin Mayer è stato leonardesco.

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