Betty Cuthbert era Golden Girl: capelli ricciuti biondi su una faccia allegra che poteva essere solo australiana, magari con vecchie radici irlandesi.
Ma aveva meritato anche il nome di una rosa e a Ermington, nei sobborghi di Sydney,dove forte è’l’amore per la rugby league e le australian rules, decisero che era il caso di chiamare con il suo nome la loro avenue più importante.
Betty se n’è andata giusto tre anni fa: era il 6 agosto 2017 e per quel che ha combinato rimane l’Unica.
Chissà se ricordava tutte queste cose: i lunghi anni passati nel progredire della sclerosi che l’aveva colpita poco più che trentenne, l’avevano lentamente spenta ma sua sorella sosteneva che, a ogni visita, nella casa di Perth dove si era spostata dal Nuovo Galles del Sud, non mancava di mormorarle: “Non pensare che abbia dimenticato chi sei, Midge”.
E Midge si commuoveva pensando alla vitalità di quella sorella che esplodeva come quando il mercurio schizza in ogni direzione se il termometro cade e va in pezzi.
Betty era del ’38 e così aveva poco più di 60 anni quando i Giochi tornarono in Australia, a Sydney: la malattia l’aveva segnata e sfilò in compagnia delle glorie gialloverdi su una carrozzella, sospinta da Raelene Boyle, tre volte argento olimpico.
Ebbe grandi applausi perché, specie per i più anziani, incarnava uno dei simboli della nuova Australia, avviata verso una sempre più decisa autonomia dalla madre patria.
Nel’ 56 a Melbourne, il paese “del canguro, dell’emù e dell’opossum, e se vuoi dell’eucalipto”, come dice una vecchia canzoncina, doveva difendere i titoli dei 100 e dei 200 conquistati a Helsinki da Marjorie Jackson, detta “the smiling”, la sorridente, che, per una delle premiazioni, ebbe in sorte “Advance Australia Fair” e non “God save the Queen”. Non è mai stato reso noto chi cambiò il disco sul piatto.
Quei titoli vennero difesi da Betty che, dopo la defaillance di Shirley Strickland, vinse i 100 in 11”5, due decimi sulla tedesca Christa Stubnick e sull’altra australiana Merlene Matthews.
Nei 200, stesso ordine d’arrivo ma con margine più ampio: 23”4 per lei, tre decimi di più chi le stava più o meno nei pressi.
La settimana delle settimane venne chiusa con il trionfo della 4×100: 44”5, record mondiale. Betty era in ultima frazione e le più dure da battere furono le britanniche, non le americane.
Già così Betty era entrata tra quelle che hanno diritto a un posto nella storia ma non le bastava: a Roma si era presentata con una lesione muscolare, aveva provato e aveva alzato bandiera bianca dopo la batteria.
A Tokyo, quattro anni dopo, andò ad assaggiare i 400, per la prima volta concessi alle donne.
La misteriosa Sin Kim Dan (51.2 con alcuni punti esclamativi) non c’era. Betty veniva da un 53.5 e un 53.3 sulle 440 yards, corse in 52.01, piegò la britannica Ann Packer e si trasformò nell’unica ad aver allineato i titoli di tutte le gare che finiscono sotto l’etichetta della velocità, da quella bruciante a quella prolungata.