Sergei Bubka (foto Bob Martin)
Sergei Bubka (foto Bob Martin)
Borse di design, Made in Italy

Trentacinque anni fa, un terzo di secolo appena abbondante, Sergei Bubka festeggiò la sua prima ascesa 6,00. In lettere, per esteso, forse fa più impressione: sei metri. I cancelli del cielo, come il capolavoro di Michael Cimino.

Quel prodigio, quell’impresa dell’uomo che volava servendosi di un’asta e che veniva da una città dell’Ucraina che si chiama Lugansk (e che prima, come Voroshilovgrad, rendeva onore a un maresciallo staliniano), ebbe la data del 13 luglio 1985 e come teatro lo stadio parigino intitolato al piccolo e coraggioso Jean Bouin, caduto nel 14, nel primo autunno di guerra, e si risolse in una faccenda piuttosto rapida.

Sergei scavalcò 5,70 alla prima prova, 6,00 alla terza e fu tutto. Quattro rincorse, quattro salti: Aleksandr Krupsky e Philippe Collet furono quelli che gli arrivarono più vicini, trenta centimetri sotto.

Vitali Petrov, allenatore consapevole di chi seguiva, diventò un uomo totalmente felice e lo fu altrettanto quando diciotto anni, ancora a Parigi, un altro suo eccellente allievo, Giuseppe Gibilisco, diventò campione del mondo.

Non resta che tornare a quei 6,00: erano le 18,44 e da quel momento il lavoro passò ai giornali, alle agenzie, alle televisioni: Bubka diventò lo Zar di tutte le aste ma qualcuno, riesumando i tempi della Guerra Fredda, lo battezzò anche Sputnik.

Sergei era comparso dal nulla, nell’estate dell’83 a Helsinki spuntandola da sconosciuto ai neonati Mondiali. Non aveva ancora 20 anni.

Raccontano che Igor Ter Ovanesian, grande lunghista e astuto commissario tecnico, avesse scelto due carneadi (lui e il saltatore in alto Gennadi Avdeyenko) dimostrando di avere eccellente fiuto e raccontano anche che il posto in squadra venne conquistato dopo un test a porte chiuse allo stadio Kirov di Leningrado, ora San Pietroburgo.

Pare che in quell’occasione Sergei fosse già stato capace di valicare 5,90 quando il record mondiale era fissato otto centimetri più in basso. Storia e leggenda possono mischiarsi anche di fronte a un contemporaneo.

A Parigi Sergei era padrone del record da un anno ma aveva perso lo scettro per un attimo, una decina di minuti, la sera del 31 agosto 1984 all’Olimpico quando Thierry Vigneron, dopo aver chiesto aiuto a una gauloise, aveva saltato 5,91.

Lui aveva replicato con 5,94 e, dopo aver assistito ai tre assalti del francese contro 5,97, per la prima volta era andato a sfidare i due piani di una casa. Respinto, ma ancora per poco.

Da quel momento, per trent’anni, è stato il sovrano. Neppure Bob Beamon ha regnato così a lungo.

La sua densità (35 record mondali all’aperto e al coperto, con un tetto assoluto di 6,15 toccato dove ha casa, a Donetsk, e proprio dove Renaud Lavllenie lo ha spodestato), la presenza massiccia nella galleria delle migliori prestazioni vanno a fianco con i “picchi” regalati in occasioni importanti (6,00 ai Mondiali di Stoccarda, 6,01 a quelli di Atene) e con la collezione di titoli iridati: sei all’aria aperta, quattro indoor.

Soltanto l’Olimpiade si è rivelata un’arcigna maestra: non gli fu permesso gareggiare nella boicottata Los Angeles, in una nuvola d’ira si autoeliminò a Barcellona (vento fastidioso e giudici severi che non gli permisero di dilazionare i tentativi oltre i canonici due minuti), e ad Atlanta uscì in barella, con un tendine lesionato.

Seul ’88 gli fu finalmente benevola, regalandogli quell’oro che non poteva mancare nei suoi domini.

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