Jean Buin (foto FIDAL archivio)
Jean Buin (foto FIDAL archivio)

Primatista del mondo, salito sul podio olimpico, giocatore di rugby, giornalista, caduto nel primo autunno di guerra: 25 anni di vita sono stati sufficienti a Jean Bouin per ottenere un posto nella galleria degli indimenticabili.

E così, in questi giorni perigliosi, è stato coinvolgente, e commovente, andare a ricercare qualcosa di lui, del suo tempo, di uno sport lieve, felice, appassionato, interpretato da giganti in miniatura come lui, l’Hercules de Marseille, per complessione fisica molto diverso dai corridori odierni di lunga lena: non arrivava all’1,70 e pesava almeno 70 chili, più un mediano di apertura che un mezzofondista.

Manovrando le leve della macchina del tempo, è consentito prendere il via al suo fianco, il 16 novembre 1911, allo stadio di Colombes: è, fuori stagione, l’attacco al record del mondo, in un luogo destinato a diventare leggendario, quello delle Olimpiadi del 1924, di Liddell, Abrahams e Nurmi, della violentissima finale ovale tra Francia e Stati Uniti, chiusa con il più clamoroso dei risultati. Lo stesso che John Huston sceglierà per la sua immaginaria partita tra Wehrmacht e prigioneri alleati, decisa dalla mirabile rovesciata del trinidadegno Ruiz, Pelé nella lista dei personaggi e interpreti.

In quel giorno di pucciniani cieli grigi, Bouin corre in 30’58”8, primo atleta a varcare la barriera dei 31’ dopo esser transitato a metà in un tempo stimato attorno ai 15’10”.
Di passaggio corre le 6 miglia in 29’51”6, il primo della sua accoppiata di record del mondo.

Per la distanza metrica Bouin è un capostipite: un tempo superiore di 4” era stato ottenuto sette anni prima, a Glasgow, da Alfie Shrubb nel corso di una prova sul’ora, ma quel 31’02”4 non era che un rilevamento ufficioso, al pari di altri reperti forniti da professionisti e dilettanti dell’epoca vittoriana, impegnati in corse o in prove ad handicap su distanze “imperiali”.

Capelli ben divisi e pettinati, baffi accuratamente spuntati, un’esperienza da cronista al Petit Provencal, ad ogni celebrazione olimpica Bouin riappare puntualmente nella foto che lo vede piegato di un decimo da Hannes Kohlemainen, il più famoso di una successione di fratelli, nella finale dei 5000 dei Giochi di Stoccolma 1912.

Il giorno è il 10 luglio e il passaggio alle tre miglia, e cioè quando mancano meno di 200 metri al traguardo, assicura che è il marsigliese a condurre davanti a Kolehmainen, capace di un serrate che lo porterà al traguardo in quel gesto a larghe braccia, immortalato in un’immagine che non manca in un solo libro di memorie atletiche.

Anche Bouin arriva a braccia allargate, ma il suo è un gesto di stupore: “neppure con questi ritmi sono riuscito a piegarlo“.

Il 14’36”6 del finlandese e il 14’36”7 del francese, in fondo a quella che meritò l’etichetta di gara delle gare, di più appassionante competizione dell’Olimpiade, polverizzarono ogni precedente sulla distanza.

L’albo dei primati, varato in loco dalla neonata Iaaf, non poteva essere inaugurato meglio. Furono necessari dieci anni perché sulla stessa pista Paavo Nurmi approdasse a un ritocco dell’ordine di un secondo.

Bouin è ancorato a Stoccolma, a quella gara, a quello stadio che ha superato il secolo di vita ed è, oltre che affascinante, ancora perfettamente efficiente, a quella giornata da sconfitto e, per usare il titolo di uno dei più bei racconti di Ernesti Hemingway, da invitto, ma non è altrettanto noto che la sua avventura olimpica era cominciata quattro anni prima, a Londra.

Fuori nel turno eliminatorio dei 1500 (al pari di Emilio Lunghi cui non servì segnare uno dei migliori tempi dal momento che il regolamento prevedeva che in finale andasse solo il vincitore del turno eliminatorio), Jean era pronto a giocare chances migliori sui 5000, ma non riuscì a schierarsi sulla linea di partenza.

Si era concesso una serata di libera uscita, era finito in un pub di Soho per finire coinvolto in una rissa e conoscere per qualche ora le reali guardine.

L’episodio costituisce anche il discrimine tra il marsigliese scapestrato e fumatore e l’atleta disciplinato che decide di voler andare lontano. Il 1911, che sfocerà nel record del mondo parigino, prende il via con la prima delle sue tre vittorie consecutive nel Cross delle Nazioni, terreno di caccia dei britannici. Bouin è il primo a spezzare quel monopolio.

Dopo la sconfitta olimpica torna a Stoccolma, ed esattamente un anno dopo, è il 6 luglio 1913, firma davanti a a una formidabile coalizione di scandinavi e finlandesi, il record del mondo dell’ora, 19.219 metri.

Di quel periodo, costellato di vittorie e di record, è un’altra delle poche documentazioni fotografiche che di lui rimangono: drappeggiato in una toga bianca da senatore romano posa in compagnia di Melchior de Polignac, aristocratico e membro del Cio.

Il luogo è il parco Pommery di Reims, dove il piccolo campione viene onorato con brindisi a base di bollicine offerte dell’omonima casa di champagne.

La tempesta sta brontolando all’orizzonte: gli spari di Sarajevo, la mobilitazione, i “poilus” in calzoni rossi che partono cantando per il fronte a farsi massacrare dalle mitragliatrici tedesche.

Nei ruolini del 163° reggimento di fanteria compare, soldato di 2° classe, il nome di Jean Bouin. L’ultimo giorno di vita è il 29 settembre 1914, poco dopo la prima battaglia della Marna, il luogo a Xivray dans le Meuse, nei pressi di St Mihiel.

Qualcuno, amante dell’oleografia e della retorica, ha scritto sia caduto durante un assalto, al grido di “Vive la France“, qualcun altro, più crudamente, sostiene che, come tanti altri poveri disgraziati, sia stato vittima dell’artiglieria francese.

Chi sarà stato a battezzare come fuoco amico un tiro corto? Viene seppellito al castello di Bouconville che di lì a qualche giorno finisce sotto la furia degli obici del Kaiser. Bouin sparisce nella terra di Fiandra, come centinaia di migliaia finiti nello spaventoso tritacarne del Fronte Occidentale.

Parigi gli intitola lo stadio del 16° arrondissement, Angers gli ha dedicato lo stadio, Nizza la piscina e la sua Marsiglia la tribuna principale del Velodrome, oggi bello come un moderno tempio, e una statua.

Il piccolo, magnifico, Hercules non è stato dimenticato.

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