Difficile avere uno zio più illustre e appassionato: Federico Mori, a vent’anni appena compiuti chiamato nella Nazionale di rugby, quella che gioca il 6 Nazioni, ce l’ha, è Fabrizio – stesse iniziali…- che l’anno scorso ha celebrato due ricorrenze tonde: a fine giugno, i 50 anni (giusto poco prima del mezzo secolo del primo passo dell’uomo sulla luna), ad agosto i vent’anni del titolo mondiale dei 400hs, penultimo azzurro a piantarsi in testa quella corona. Ultimo Beppe Gibilisco, compaesano di Archimede.
Le corone potevano esser due: a Edmonton, due anni dopo, un record italiano che resiste tuttora e che lo colloca ben dentro i primi venti di sempre non bastò: l’ultimo tratto, dal decimo ostacolo al traguardo, si trasformò in uno scontro bollente e feroce con Felix Sanchez: 47”49 il dominicano made in New York, 47”54 Fabrizio di Montenero.
L’agonismo portato di forza nell’empireo, la nobiltà della distanza che uccide sublimata in un duello tra eleganti interpreti.
Quando vengono ripercorse strade lastricate di emozioni, è facile perdere la direzione e finire a capofitto in momenti che riempiono il cuore.
E così il viaggio riporta al ’99, alla vigilia della finale di Siviglia, al faccia a faccia con Fabrizio e con Roberto Frinolli (che tra poco arriverà al traguardo degli 80 anni) in un patio dove era possibile non avvertire l’implacabilità del sole africano che batteva le strade della città dormicchiante.
Uscii da quella chiacchierata con un’idea fissa: sposare e legare i destini dell’allenatore e dell’atleta, e così l’ultima riga fu: Frinolli ultimo (come era capitato nella stordente finale olimpica di Mexico ’68, quella di sir Drake Hemery), Mori primo?
Poco più di ventiquattro ore dopo, l’attesa del verdetto dopo il reclamo della Francia (sin dalla semifinale avevano appostato uno “spione” armato di telecamera in curva per accendere uno scontro regolamentare sulla liceità del passaggio della barriera da parte dell’azzurro), spazzò via questi effettacci-effettini e, per la prima e unica volta nella mia vita, scrissi due pezzi di uguale lunghezza e diametralmente opposti: la fiesta sivigliana di Fabrizio e il barbiere livornese servito di barba e capelli.
Intorno a mezzanotte, annunciai, con voce stanca, venata di isteria, che poteva essere pubblicata la prima versione: la protesta dei transalpini era stata respinta e il primatista d’Europa Stephane Diagana doveva rassegnarsi a salire sul secondo gradino smarrendo la chance del bis mondiale. Fabrizio festeggiò indossando il copricapo del Cappellaio Matto.
Quei lunghi minuti, costati milioni di cellule cerebrali (mie) e di una quantità difficilmente misurabile di energie nervose (sue), sono stati rivissuti poco prima del Natale 2018, sulle gradinate dello stadio Carlini: lo zio era venuto a vedere il su’ nipote “accademico” maramaldeggiare con il Cus Genova, ad ammirare quella meta venuta dopo trenta metri di corsa in solitario, a rendere sempre più saldo un legame che li unisce sin dalla venuta al mondo di Federico:
“Volo di ritorno dai Giochi di Sydney, atterraggio a Fiumicino, in macchina sino all’ospedale di Cecina dove mi aspettava Massimo. Poco dopo venimmo raggiunti da Federico”, racconta Fabrizio. Legami profondi, assicurati dalle gomene dell’affetto famigliare: non è frequente, oggi.
L’incontro sulle gradinate dello stadio intitolato a un vecchio fusto come Giacomo Carlini, è diventato il primo nucleo di questa storia.
Il seguito è scandito da un’altra meta di Federico, nel piccolo e antico tempio di Galashiels, Lowlands scozzesi.
“Prima di scendere in campo – racconta lui – Fabio Roselli, il nostro ct, ci ha raccontato qualcosa del luogo in cui stavamo per giocare: la storia del rugby è passata di qui, ha detto, e così, dopo aver vinto, eravamo più orgogliosi. E io sentivo dentro di me una gran gioia: ho segnato quando la partita era ancora in bilico, all’insegna dell’equilibrio, quando mancava a palmi un quarto d’ora. Quella meta ha dato una svolta”.
Bravo lui a segnare, bravo Roselli a comunicare lineamenti storici.
Vicende livornesi in una città in amore per lo sport (scherma, calcio, canottaggio, ciclismo, atletica, rugby) e dalle forti dinastie, a cominciare dai Montano sciabolatori.
La giornata trionfale, passata agli annali colorati di amaranto, fu la prima di Atene 2004: Aldino oro in pedana, Paolo Bettini oro nella prova su strada corsa in un calore che istupidiva i piccioni delle piazze: il livornese Carlo Azeglio Ciampi, in visita olimpica e affettuosa prima che presidenziale, si imporporò d’orgoglio.
I Mori appartengono al partito dell’atletica: Fabrizio, sublime ritmatore sulle dieci barriere disseminate sul giro di pista, il figlio Gabriele, classe 2003, velocista da record italiano allievi nella 4×100 dopo essersi rotto del calcio e aver chiesto lumi al padre per trasformarsi in sprinter; il fratello minore di Fabrizio, Massimo, giavellottista che ha lasciato qualche segno in Toscana, padre della piccola Rachele che quest’anno ha dato forti scosse ai record giovanili: oltre i 70 metri con il “martellino” delle allieve, oltre i 65 con il martello delle “grandi”.
E poi Federico, 1,89×107, stesse misure di Caleb Clarke, l’ultimo crack degli All Blacks.
In tutte queste storie antiche e recenti di ostacoli, di rettilinei, di attrezzi da scagliare lontano, Fede è la mosca ovale.
Una mosca XXL: un centro o ala che, non fosse livornese, sarebbe inglese o neozelandese. “Fede sfanga rugby da quando aveva 8 anni”, dice lo zio.
“Proprio così – conferma Federico – e, se ci ripenso, per caso. Una gita fuori dall’aula, un’attività alternativa, come la chiamano. Si va su un campetto da rugby e scopro che quel gioco fa per me. E così l’allenatore dei bambini del Rugby Livorno viene a casa e dice a mia madre: a me pare che il ragazzo sia proprio tagliato. E mia madre dice che può andar bene così. Da allora sono passati dodici anni”.
Già vecchio del mestiere questo millennial dalle idee chiare: “Sono innamorato dello spirito che si respira dentro alla squadra. Credo sia qualcosa che mi è stato trasmesso dalla famiglia: lo sport è stato una presenza costante, una forza positiva.
La verità è che sin da quando ho cominciato, mi sono messo in testa di poter diventare un professionista e credo di esser sulla strada buona”.
Dopo l’Accademia, il Calvisano e la possibilità di dare una sostanziosa mano alle Zebre, una delle due franchigie italiane in Pro 14. La dinastia va avanti.