Un saluto a Giuseppe Beviacqua savonese che, se fosse ancora su questa terra, taglierebbe domani 28 ottobre il traguardo dei 107 anni. Qualcuno ce la fa e una volta dicevano che il più alto numero d Matusalemme risiedeva in Azerbaijan per via dello yogurt e di altri prodotti genuini, che non si chiamavano ancora bio.
Lui era del 1914, quando la Grande Guerra era già esplosa e si combatteva sia sul Fronte Occidentale (dopo i primi spensierati macelli di bandiere al vento, si stava delineando la realtà della guerra di trincea) che a Oriente: gigantesche battaglie tra tedeschi del Kaiser e russi dello Zar. L’Italia era ancora alla finestra, ma il 24 maggio non era lontano.
Beviacqua aveva un soprannome che lo riassumeva: Niculin, Nicolino per coloro che preferivano l’italiano al dialetto. Era uno scricciolo e un airone: un breve busto e gambe lunghe e sottili. E baffetti, sottili anche quelli, che, chi ha una certa età, definisce alla Adolphe Menjou, l’attore americano che attraversò il cinema da Valentino a Kubrick.
Anche Niculin ha attraversato una lunga epoca, dall’esordio degli anni Trenta al secondo dopoguerra quando era spesso l’uomo da battere nelle corse su strada: non era più un ragazzino, i capelli erano diventati fini e radi e sempre ben impomatati, ma aveva pochissimo peso da portar con sé. Un bel vantaggio.
Il momento che lo ha consegnato alla storia dell’atletica azzurra è ambientato in un luogo importante: lo stadio parigino di Colombes era stato il teatro delle Olimpiadi del ’24, popolate di eroi e centauri, e che appena qualche mese prima aveva ospitato la finale del Mondiale di calcio e la seconda vittoria (4-2 sull’Ungheria) della squadra di chi nella Grande Guerra aveva dato il suo contributo: Vittorio Pozzo.
Sempre in quell’estate, Parigi aveva salutato il trionfo di Gino Bartali al Tour. Il secondo venne dieci anni dopo e sembrò un miracolo: Gino, coetaneo di Niculin, aveva 34 anni.
Toujours les italiens, sempre gli italiani si cominciava a mormorare in quei mesi in cui la bufera iniziava ad addensarsi, e quelle parole oscillavano tra l’ammirato e l’invidioso. Con i nostri “cugini” è sempre andata così.
Cominciarono a pensarlo anche gli spettatori degli Europei quando, giro dopo giro dei 10000, quel piccolo fragile italiano continuava a stare alle calcagna del lungo Ilmari Salminen.
Le credenziali del finlandese erano formidabili: era il campione olimpico, prima “lancia” di Suomi nella giornata berlinese del tris completato da Askola e Iso-Hollo e, da poco più di un anno, era il primatista mondiale con il 30’05”6 che, dopo tredici anni, aveva detronizzato il limite di Nurmi.
Niculin poteva rispondere con qualche maglia tricolore e un modesto 11° posto sulla pista dell’Olympiastadion. Eppure Salminen non riusciva a togliersi dai piedi quella piccola ombra che sembrava sfiorare appena la tennisolite.
A Colombes Davide non abbattè Golia. Beviacqua cedette per otto decimi perché non aveva grande spunto e perché tutte le energie erano state spese in quello spietato marcamento. L’Italia raccolse quell’argento, insieme a quelli di Orazio Mariani nei 100, di Arturo Maffei nel lungo, di Giorgio Oberweger nel disco.
L’unico oro fu di Claudia Testoni, ma le donne gareggiavano a Vienna, nuovo capoluogo di provincia del Terzo Reich.