
Steve Earl Lewis nel 1988, a 19 anni e poco più di quattro mesi, correndo i 400 metri in 43″87 diventò campione olimpico a Seul, ottenendo anche il primato del mondo juniores (ancora imbattuto), a un centesimo dal tempo di Lee Evans a Mexico ’68. Mica male per un ragazzino-ragazzone.
Lewis, una specie di fragore che aveva cominciato a brontolare ai Trials di indianapolis, quelli del 10.49 di Flo-Jo: si era presentato con 45.68 e corse il primo turno in 44.61, la semi in 44.11, la finale in 44.37 strappando il terzo biglietto alle spalle di Butch Reynolds, segni particolari bellssimo e di Danny Everett che, vent’anni dopo Evans e Larry James, tornarono a mettere in scena un “passo a due” sotto i 44”: 43.93 Butch, 43.98 il gentile e raffinato Danny.
Questo capitava a metà luglio. Un mese dopo, al Letzigrund di Zurigo, Butch devastò il record del mondo, 43.29, lasciando Danny e Steve ai confini del secondo di distacco: 44.20 e 44.26.
Che Reynolds potesse esser sconfitto nello scontro per la corona olimpica, era come immaginare la notizia che ogni buon cronista attende di mettere in pagina: un uomo ha morso un cane.
Ma il 28 settembre 1988, nella Seul ancora sconvolta dallo scandalo Ben Johnson, Piedone il californiano morse Butch che aveva riposto un’infinita fiducia nella sua seconda parte, nella sua capacità di rimonta portata con gambe infinite.
Ma i 400 sono una strana dimensione, un ambiente ostile, una zona di guerra: meglio sempre correrli con la bava alla bocca, incuranti dei mastini della fatica che inseguono.
A metà strada, avanti Everett, con Lewis vicino: Reynolds era sesto, lontano. Alla fine della seconda curva Everett stava esaurendo il suo slancio vitale ma senza andare in rottura, come uno stracco trottatore.
Lewis in testa e Reynolds dietro sei metri, in piena caccia. Piedone tenne meno di mezzo metro su Butch, 43.87 a 43.93, e qualcosa in più su Everett che completò la tiercé degli americani in 44.09.
Sorpresa, clamore, ma sino a un certo punto: nei primi due turni Lewis era stato il più veloce, 45.31 e 44.41, e dopo le semifinali, fatali al campione del mondo Thomas Schonlebe (tuttora primatista europeo con 44.33 datato 1987), aveva in sostanza pareggiato con Butch: 44.35 contro 44.33.
Tre giorni dopo, il 1° ottobre, Piedone avrebbe dato una forte mano alla 4×400 che eguagliò al centesimo, 2.56.16, il record mondiale dei “cavalieri del sogno” messicani. Negli split risultò il più veloce: 43.69 lui, 43.79 Everett, 44.74 Kevin Robinzine, 43.94 Reynolds.
Lo stesso apporto sostanzioso, 43.5, lo diede quattro anni dopo a Barcellona quando un altro quartetto Usa con Andrew Valmon, Quincy Watts e un giovane Michel Johnson si sarebbe impadronito del mondiale in 2.55.74.
Tre giorni prima Steve si era arreso al divino Watts concedendogli un margine storico per una finale olimpica, sette decimi, 43.50 a 44.21. Aveva 23 anni ma infortuni e disturbi virali avrebbero impedito al californiano di essere ancora se stesso.