Valerij Brumel (foto Getty Images)
Valerij Brumel (foto Getty Images)

A Tokyo, prima Olimpiade d’Asia, la medaglia d’oro del salto in alto, il 21 ottobre 1964, finì nelle mani di uno dei campioni più grandi e disperati, Valerij Brumel che, sulla via dei Giochi giapponesi, sei volte aveva migliorato il record del mondo sino a portarlo a 2,28.

Chi, dopo oltre mezzo secolo, è in grado di scavalcare un’asticella posta a quell’altezza, può considerarsi a pieno titolo un saltatore, un eccellente saltatore.

Il ruolo di giustiziere dei saltatori americani era cominciato a Roma quando, diciottenne, Valerij aveva conquistato la medaglia d’argento, alle spalle del magro e baffuto georgiano Robert Shavlakadze, l’uno e l’altro davanti a John Thomas, il lungo ragazzo del Sud che i critici americani vedevano come il naturale destinatario della vittoria.

Valerij era originario di una sperduta località siberiana, Tolbuchino (nei pressi del fiume Amur che segna a lungo il confine con la Cina), erede di una famiglia di radice baltica là trasferitasi quando prese il via la campagna staliniana della colonizzazione delle terre vergini e, con essa, la promessa di stipendi più alti.

Lì Valerij era nato, in piena guerra patriottica, la seconda guerra mondiale,(poco prima che iniziassero le spallate dell’Armata Rossa contro l’invasore tedesco) e alla “rodina” (la patria) offrì la sua raffica di record mondiali.

Un magistero che nessuno ha incrinato (a parte Volodja Yashchenko, cosacco di Crimea, ultimo interprete del ventrale, portato via giovanissimo dal diavolo annidato nella bottiglia) e la medaglia d’oro olimpica di Tokyo, raggiunta non senza patemi dopo una balbettante qualificazione e una decisione finale affidata al numero di falli: lo sconfitto fu ancora Thomas, unlucky loser, 2,18 e record olimpico per entrambi, ma l’oro fu sovietico.

C’è un’immagine che più di ogni altra rappresenta e tramanda la meraviglia assoluta che il suo stile seppe regalare per un tempo troppo breve: è una vecchia foto bianco e nero, scattata in una palestra di Mosca e Valerij, dopo essersi diretto verso il tabellone, sta assestando un calcio al nastro del canestro, posto qualche centimetro più in alto dei tre metri.

Brumel fu un anticipatore, il simbolo di uno sport (sovietico) opposto in una sfida senza fine a quello americano negli anni più ispidi della Guerra Fredda, delle crisi di Cuba, della corsa allo spazio, della minaccia nucleare: tre dei suoi sei record mondiali (sino al 2,28 del 21 luglio 1963) vennero nel corso di incontri tra Urss e Usa, i faccia a faccia che assumevano altro aspetto e significato di un match di atletica.

Il fato gli concesse poco tempo e lui seppe sfruttarlo, soprattutto nelle due annate perfette, il ’62 e il ’63 lungo le quali scavò tra sé e il mondo un fossato profondo, definitivo nelle misure, totale nell’interpretazione di uno stile che ebbe in lui il Lord, il signore assoluto, il teorico, l’applicatore, l’agonista.

Valutando il dato anagrafico di Valerij, poteva essere l’inizio di una serie memorabile, da spingere sino al ’68, forse sino al ’72: avrebbe avuto 30 anni.

E invece il suo diventò un veloce viaggio verso la notte. Lo schianto arrivò la sera del 4 ottobre 1965, su una di quelle enormi prospektive moscovite, umida di una pioggia che l’oscurità stava trasformando in patina ghiacciata.

La moto era guidata da Tamara Golikova, campionessa delle due ruote, Valerij era sul sellino del passeggero. Tamara ne uscì indenne, Valerij no.

Quando lo portarono all’ospedale e frugarono nelle sue tasche, alla ricerca dei documenti, il medico di servizio venne scosso da una sferzata gelida: quello era Brumel e il piede destro, quello dello stacco, era attaccato alla gamba da filamenti di pelle.

Un’operazione dopo l’altra (venti), un tormentato cammino della speranza, un graduale abbandono da parte di tutti, anche della moglie “Cosa facevi in moto con Tamara?” che ottiene il divorzio. Solo un piccolo raggio di sole: “Non arrenderti. Spero di vederti saltare ancora“, gli scrisse il gentile Thomas, mai invelenito dalle sconfitte.

Un dolore che mi torturava“, lascerà scritto mentre provava a rientrare e con quel piede rimesso assieme in qualche modo salta 2,06. Dal momento del volo sull’asfalto sono passati quattro anni e le ali sono tarpate come quelle di un uccello che qualcuno ha deciso di non far più volare.

Nel frattempo gli americani avevano lanciato la loro Rivoluzione d’Ottobre, il loro ’68, affidandosi a uno strambo personaggio, all’iconoclasta Dick Fosbury, quello che dava le spalle all’asticella in un gesto da gambero, senza affrontarla come Valerij: lui guardò in televisione e capì che il nuovo era avanzato.

Negli anni che lo divisero da una morte prematura, calatagli addosso a 60 anni, poche notizie. Una annunciava che il suo dramma “Secondo tentativo” era rimasto in scena cinque anni al teatro Sladovski. Unico in tutto, persino nella sua dolente autocelebrazione.

Valerij Brumel (foto d'epoca)
Valerij Brumel (foto d’epoca)
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