Abebe Bikila (foto ilMamilio.it)
Abebe Bikila (foto ilMamilio.it)

Abebe Bikila, l’uomo del primo sbocciare dell’Africa: fra qualche mese saranno passati sessant’anni, giubileo di diamanti per chi veniva da un paese di pietra, di monti aspri.

Stupì, commosse, divenne il simbolo di un Continente, di un gesto, di uno stile di vita: nella disordinata stanza di Dustin Hoffman in “Il Maratoneta” di John Schlesinger c’è un poster di Abebe che corre sulle livide strade di Tokyo e spesso il cuore di Ben (Hoffman) batte all’unisono con quello del Grande Etiope.

Bikila è morto a 41 anni e appartiene alla galleria di chi ha meritato l’immortalità dell’immagine, come Einstein che fa le beffe, come Hemingway già sprofondato nell’angoscia, come Marylin colta nella sua ultima triste risata sul set de “Gli Spostati”.

Tutte le immagini, a cominciare da quella di Abebe, sono in bianco e nero. Qualcosa vorrà dire.

Alla vigilia dei Giochi di Roma, Abebe è una riserva, neanche giovane: ha 28 anni, viene da Jato, un villaggio a sudovest di Addis Abeba, 2000 metri di quota. Terra aspra: arruolarsi è una delle poche possibilità. L’altra è la pastoriza.

A 19 anni è soldato della Guardia di Hailé Selassié, potenza della Trinità, negus neghesti, ultimo discendente di re Salomone e della regina di Saba,

Ordine chiuso, marce: non è meno dura che al paese ma c’è la paga che prende la via di casa. Abebe corre perché tutti gli etiopi corrono, l’unico modo di spostarsi per chi non ha asino o cammello.

La prima svolta è nel ’56 quando dalla Svezia arriva Onni Niskanen, ingaggiato dalla corte per rendere la Guardia un corpo ancora più scelto, ma anche per individuare talenti: lo sport è un buon distintivo da appuntarsi.

Gli allenamenti sono durissimi: ad altitudini tra i 2000 e i 3000 metri, il sangue si arricchisce di ossigeno, scudo contro la fatica, doping ambientale. Abebe progredisce scalando scarpate (una delle sue foto più famose lo offre mentre sbuca da un cratere, in un paesaggio lunare), irrobustendo i piedi nudi.

Ma Niskanen non nutre grande fiducia in lui e gli concede un posto per Roma solo dopo un’improvvisa malattia di Wami Biratu. Abebe accoglie la notizia senza scomporsi: riflessivo, chiuso.

Il 10 settembre 1960 due pullman portano alla partenza i partecipanti alla maratona olimpica. Per quei 69 è stata usata la clemenza non riservata ai marciatori: la partenza è alle 17,30 quando l’ora del sole a picco è passata.

Abebe non è un favorito, è uno sconosciuto, e di lui offre una testimonianza il maratoneta genovese Silvio De Florentiis: “Ero molto emozionato. Allora l’ho guardato e mi sono detto: se corrono anche quelli scalzi, c’è posto anche per te, Silvio. Mi sbagliavo“.

Abebe segue il gruppo di testa e le piante vanno a posarsi sui tiepidi sampietrini. Quando la gara entra nel vivo, rimane in compagnia di un altro atleta nato nell’aria fina di montagna, il marocchino Rhadi ben Abdesselam, anche lui militare al servizio di un re, quello del Marocco, Difensore della Fede. Mai un’occhiata corre tra di loro.

Per domarlo Abebe sceglie un luogo simbolico: l’obelisco di Axum che gli italiani hanno predato dalla città santa durante la guerra di aggressione, ribattezzata ricostituzione dell’Impero.

E’ il momento di un allungo che asfissia: nella sera illuminata da una fiaccolata, Bikila si presenta sotto l’Arco di Costantino dopo 2h15’16”, record mondiale. E’ scalzo, è etiope: può essere allestita una saga di sentimenti a buon mercato, una catena di rimpianti, non avessimo perduto la guerra e l’Impero.

Abebe, che parla solo amarico e non sarà mai un oratore, concede uno slogan tradotto: “Rappresento la mia gente che ha sempre vinto con determinazione e eroismo“.

Lo attendono imperiali ringraziamenti, il grado di sergente, uno stipendio meno magro e la possibilità di accettare le occasioni che gli piovono addosso.

Nel ’61 corre tre maratone (ad Atene, Osaka e Kosice) e le vince tutte. La prima sconfitta viene nella primavera del ’63, a Boston, sul duro percorso terreno di sconfitta per tanti campioni olimpici.

A Tokyo manca poco più di un anno: Abebe lo trascorre in parte a nord, nella zona calda della ribellione eritrea, una guerra spietata per conquistare luoghi desolati. Alle selezioni olimpiche vince in 2h16’, un tempo straordinario ai 2000 metri della capitale.

Affronta la seconda Olimpiade a quaranta giorni da un’operazione di appendicite e la trasforma in esecuzione di Ron Clarke, l’australiano che sforna record mondiali su tutte le distanze ma è costretto a subire come un boomerang la sua sterminata collezione. Dopo un coraggioso avvio, pagherà con duri interessi, per finire nono.

Abebe è solo nella città uggiosa, tra mastodonti di cemento. Non è più scalzo: la Puma gli ha offerto calzature, calze e denaro per indossarle. La lungimiranza, il fiuto sono le costanti dell’azienda nata dallo scisma all’interno della famiglia Dassler: Puma erano anche le scarpe dorate di Usain Bolt.

La seconda vittoria è schiacciante: oltre 4’ sul britannico Basil Heartley. Il tempo, 2h12’11”, è un altro record mondiale. Al tempo l’etichetta era “migliore prestazione”.

E’ il primo della storia capace del bis (l’altro sarà il tedesco est Waldemar Cierpinski, nel ’76 e nell’80) e la prospettiva offerta da Città del Messico, a 2200 metri dl altitudine, rende agevole la speranza del tris.

Ma una delle gambe non funziona e Abebe si arrende al 17° chilometro: davanti, l’andatura è scandita da un etiope più macilento di lui, Mamo Wolde, nuovo eroe nazionale prima di conoscere lunghi anni di carcere per presunte atrocità commesse durante il regime di Menghistu. Sono seppelliti l’uno accanto all’altro, in uno dei cimiteri di Addis Abeba.

Ai Giochi di Monaco di Baviera avrò 40 anni ma voglio provare ancora“, confessa Bikila abbandonando la sua sfingesca impassibilità e offrendo l’inglese stentato assorbito sulle strade del mondo.

Non può sapere che il destino è in agguato dietro una curva, sulla strada che risale un amba: il Maggiolino sbanda, finisce in una profonda scarpata, verrà ritrovato da un contadino che va al lavoro.

Dodici ore tra i rottami: la schiena è spezzata. In Baviera andrà su una carrozzina, arciere in quelle che oggi sono chiamate Paralimpiadi. Sul volto, un sorriso dolente. Uno dei suoi ultimi sguardi.

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