Florence Griffith-Joyner (foto SportingHeroes.net)
Florence Griffith-Joyner (foto SportingHeroes.net)

Dicono che le comete annuncino la sventura. Flo Jo fu una cometa e annunciò la sventura. La sua. Florence Griffith maritata con Al Joyner (oro nel boicottato e mutilato triplo di Los Angeles ’84), così veloce da lasciar questo mondo prima ancora di raggiungere i 39 anni. Lì avrebbe compiuti sul far del Natale, il 21 dicembre 1998. Capita come nelle prime sequenze di Citizen Kane, davanti a una salma, a una bara.

Chi era Flo, la donna bionica (riandare con la memoria alla muscolatura e alla definizioni delle cosce prima ancora che al volto mutato, alla voce che sembrava rimbombare in una caverna), la fatalona meccanica che, inaugurando una moda, per prima concesse generose porzioni di pelle al vento e al pubblico, che disegnò body sfacciati senza mai far scandalo come se i cambiamenti a cui si era sottoposta l’avessero resa una replicante dalle modeste capacità eccitanti?

Chi era la donna che concepì e costruì e offerse i record che hanno resistito e resistono e chissà per quanto resisteranno?

Una donna che sprigionava la voglia di cogliere tutto ciò che la vita poteva offrirle. Ed è molto triste che probabilmente abbia pagato con la vita questa sua spregiudicatezza“, fu l’elogio funebre di Carlo Vittori, gran maestro dello sprint.

Parole che appena nascondono, o non nascondono affatto, gli interrogativi da sempre appuntati su questa californiana, settima di undici figli, dalla pelle di luna, dagli enigmatici occhi orientali o forse donati da sangue nativo, con un quarto di sangue irlandese nelle vene.

Nel turbinoso volgere di poco più di settanta giorni, dal 16 luglio al 29 settembre 1988, cambiò il volto della velocità, conquistò tre medaglie d’oro ai Giochi di Seul, maledetti e sospetti, sfiorandone una quarta con una poderosa frazione da 48” nella 4×400, lasciò tutti di stucco nel febbraio che seguì, quello della confessione di Ben Johnson, annunciando l’addio a 29 anni.

Oggi è agevole circoscrivere la vita terrena di Flo dentro questa parentesi, lo stesso racchiuso periodo che si trasformò in ascesa e caduta luciferina di Big Ben.

E’ facile, è comodo far focus su quella donna con il sorriso della Gorgone (le altre, dietro, lontano, pietrificate), dai muscoli pronunciati, dalle piastre robuste che avevano sostituito il seno. Il ricordo cambia direzione e va verso un’altra Flo, quella che d’estate calava con il gruppo delle rondini americane.

Era la troupe che si spostava come un Barnum, un meeting dopo l’altro, un aereo dopo l’altro. C’era anche questa ragazza che ricordava Cher, con unghie inverosimili (Gail Devers portò la moda a estreme conseguenze…), dipinte con smalti che inviavano barbagli alla notte.

Non era la stella, correva in 11”10 o giù di lì, sapeva progredire, erodere il muro degli 11”, avvicinare quello dei 22”, approfittare delle condizioni favorevoli offerte dall’Olimpiade di Los Angeles, spogliata dalle sovietiche e soprattutto dalle ddr: argento dietro la feroce Valerie Brisco-Hooks.

Ancora domande, come in un’inchiesta, come in un’indagine, proprio come nel capolavoro di Orson Welles. E’ in quel momento che Florence diventa Flo, un nome breve come un soffio di corrente? No, la metamorfosi è di un paio di stagioni dopo, in fondo al ritorno alla vita di tutti i giorni: otto ore in banca, una mano alla mamma che ha aperto un salone di bellezza.

Incontra Al e Jackye Joyner, allenati da Bob Kersee, detto l’alchimista. Sposa Al e diventa cognata della più formidabile tuttofare della storia (“detto con rispetto, a me sembrano due scimmione” dice di loro l’apollineo ottocentista brasiliano Joaquim Carvalho Cruz) e capisce che i metodi di Bob possono portarla lontano.

Quanto lontano? Sufficiente rileggere la sua scheda personale, scoprirla migliorata a 10”96 e a 21”96 nel 1987 (seconda nei 200 e prima nella 4×100 ai Mondiali di Roma) e spalancare il libro delle meraviglie alle pagine segnate con la data 1988.

Indianapolis, Trials, per formare la squadra americana per Seul, le selezioni che non concedono pietà: gli eletti sono solo i primi tre; gli altri, tutti dannati.

Il record mondiale dei 100 è il 10”76 dell’aggraziata texana Evelyn Ashford, a segno quattro anni prima al Letzigrund in fondo a un memorabile testa a testa con Marlies Goher, detta miss Alte Frequenze, uno di quei gran duelli che Res Brugger sapeva mettere in cartellone.

Il 16 luglio, quarti di finale, Flo Jo vola in 10”49 e diventa la figlia del vento aprendo un doppio canale di analisi. Oltre ad apparire diversa, trasformata, potente, ha avuto una buona spinta da una brezza che, a palmi e considerata quella che spirava sulla pedana del triplo, appare ben oltre la norma dei due metri al secondo.

Sui verbali il vento appare nullo e lo studio successivo di un fisico australiano, il dottor Nicholas Linthorne, che calcolerà in 5,5 il vento di coda, non cambierà le carte in tavola.

10”49 è sconvolgente: un generoso cronometraggio manuale di un tempo le avrebbe attribuito il record di Owens, 10”2, e in effetti le misurazioni di controllo (sempre in servizio, in caso di panne dei circuiti) danno 10”3, 10”3 e 10”4.

Il giorno dopo scende in pista altre due volte: 10”70 in semifinale, 10”61 in finale, in entrambe le occasioni con una spinta favorevole tra 1,6 e 1,2. Una Ashford ai massimi livelli (10”81) le giunge a due metri tondi.

E’ la prova generale per i suoi giorni d’oro e fuoco a Seul. Quattro apparizioni sui 100: 10”88, 10”62, 10”70 e 10”54, gli ultimi due tempi con vento oltre la norma. Ashford, esprimendosi ancora vicina al suo top, accusa 29 centesimi e Heike Drechsler è terza a 31.

Quattro giorni dopo, il 29 settembre, in semifinale dà una prima scossa al record mondiale dei 200 (21”56, contro il quadruplo 21”71 toccato da Marita Koch e Drechsler tra il ’79 e l’86), prima di sottoporlo, cento minuti dopo, a totale revisione: 21”34, con passaggio ai 100 in 11”18 e seconda parte – senza aggettivi… – in 10″16, regalando un largo e beffardo sorriso e arrivando a braccia sventolanti.

Il segreto dei tuoi progressi?“, gli venne domandato nella solita oceanica e sudata conferenza stampa. “Dai, Florence, dillo“, la invitò Ashford, stirando un sorriso. “Un grande lavoro e il desiderio di vincere i Giochi Olimpici“, fu la versione che Flo offerse all’uditorio.

Pochi mesi dopo, l’addio. “Voglio correre la maratona” “Voglio dedicarmi alla moda“. “Scriverò fiabe“.

Dieci anni dopo, la morte. Per una crisi epilettica che la soffocò durante il sonno, per una malformazione cerebrale che nessuno aveva mai riscontrato. Il mistero la rese una Black Dahlia. Al Joyner la pianse e si infuriò con chi aveva insinuato che in quei miracoli, in quella fine il doping avesse avuto parte e influenza.

Non l’ha più avvicinata nessuna ed è sufficiente scorrere i tempi di chi l’ha seguita sul trono olimpico: Gail Devers 10”82 e 10”94, Marion Jones 10”75 (ma poi si è visto che fine ha fatto: spogliata di tutto e finita pesino in galera per spergiuro davanti a una corte federale), Yulia Nesterenko 10”83, Shelly Ann Fraser 10”78.

I 200 non meritano questo excursus: ancor oggi un’incursione sotto i 22” è salutata con esclamazioni di sorpresa. A dire il vero che non l’abbia avvicinata nessuna non è esatto: Carmelita Jeter, detta ovviamente Jet, californiana come Flo, capace di scendere nella stagione dei 30 anni a 10”64 e di alzare il sipario sull’eterna rappresentazione dei dubbi, dei sospetti.

Il video dei quarti di finale dei trials statunitensi del 16 luglio 1988

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