Chiara Elisabetta Franzetti, milanese ariosa, vive a metà strada tra Milano e Varese, ma sostanzialmente dove la porta la passione per suo lavoro e i suoi interessi, la sua valigia è sempre pronta.
Dopo un trascorso professionale in compagnie aeree e nella moda, oggi si occupa di commerciale e marketing in un’azienda svizzera leader nell’abbigliamento per ciclisti dove ha iniziato a lavorare 13 anni fa implementando dapprima il reparto trasporti e dogana.
E’ appassionata di sport (soprattutto quelli di acqua e di aria, nuoto, immersioni, windsurf, kitesurf, parapendio, e adesso si sta preparando per la sua prima maratona), ma si rilassa suonando il pianoforte, cucinando dolci e camminando nella natura, ma non rinuncerebbe per nulla al mondo alle partite di calcio o di tennis coi i suoi nipotini.
Il suo coinvolgimento nell’atletica leggera è frutto dell’amicizia con una compagna di Università, figlia dell’allora Presidente della corsa campestre ‘Cinque Mulini’, che cercava persone da impiegare come interpreti nell’organizzazione della manifestazione.
Da quel momento è stato un crescendo di interesse e impegni: si è occupata di organizzazione e comunicazione di gare in pista, su strada e di cross, ha curato la seconda carriera sportiva agonistica di Danilo Goffi, ha collaborato con riviste di settore ed è stata coinvolta nel progetto WIWA-Women in World Athletics del 2013.
Con tutte queste attività non ha mai troppo tempo per parlare di sé e, per questo, siamo onorati l’abbia fatto per il nostro quotidiano, al fine di spiegarci un po’ più nel dettaglio il suo attuale coinvolgimento nel mondo dell’atletica che, di fatto, è legato al suo costante impegno per valorizzare al meglio la figura femminile nel mondo del lavoro.
Ciao Chiara, puoi spiegarci innanzitutto di cosa tratta il progetto EA Women Leadership and Gender Equity?
Il progetto nasce nel 2013, quando la European Athletics, insieme alla Federazione Britannica e all’Università di Loughborough UK, hanno dato vita al progetto WIWA-Women in World Athletics per la promozione della figura femminile in posizioni apicali nello sport.
L’iniziativa si è sviluppata con seminari partecipati da una donna per ciascuna delle federazioni affiliate EA e, ad oggi, l’ultimo appuntamento in presenza è quello del dicembre 2019, quando a Belgrado le iscritte a questo percorso di crescita personale e professionale sono state formate per diventare moderatrici dello stesso progetto a livello nazionale.
L’anno seguente, infatti, in 15 nazioni europee altrettante moderatrici hanno condiviso le nozioni acquisite negli anni gestendo un progetto pilota su scala nazionale rivolto a 10 donne che, rispondendo a specifici requisiti definiti da EA, sono state indicate come potenziali leader sportive del futuro.
In virtù del successo della scorsa edizione, quest’anno è stata promossa la seconda generazione del corso che, lato Italia, coinvolge una squadra di 11 donne ritenute capaci di arrivare ad occupare posizioni fondamentali nel mondo dello sport.
Quando e come hai preso parte al progetto EA?
Sono stata selezionata da Alfio Giomi, allora Presidente FIDAL, che mi ha indicata come delegata italiana per partecipare al percorso WIWA fin dal primo appuntamento di Solihull, in Gran Bretagna, nell’aprile 2013.
Da allora la mia avventura e presa di coscienza sulla questione femminile nello sport, leadership e parità di genere in primis, hanno preso il via: ho infatti partecipato a tutti gli appuntamenti svoltisi fino al dicembre 2019, quando sono stata formata per replicare il progetto in lingua italiana a livello nazionale.
Qual è lo scopo del progetto in Italia?
Gli obiettivi del progetto italiano sono quelli del programma del quale è una costola.
In primo luogo, empowerment femminile: formare, istruire e motivare donne capaci di arrivare al vertice nello sport, dando loro nozioni, strumenti, competenze, modelli di riferimento e case history per capire quali siano le competenze necessarie e le strategie per essere delle vere leader.
Cruciale, poi, l’aspetto relativo alla definizione del proprio viaggio verso la leadership: sulla base di quanto appreso negli appuntamenti online le partecipanti avranno messo nero su bianco su varianti e variabili, punti di forza e punti di debolezza personali per scrivere le tappe concrete che le porteranno a raggiungere i propri obiettivi professionali nello sport.
E’ anche molto importante fare rete, nel senso che, mettendo in contatto professioniste dello sport, si offre loro la possibilità di scambiare opinioni e idee, condividere progetti e iniziative oltre a dubbi e problemi, ottenere supporto, capire quali siano i meccanismi che regolano il mondo sportivo in realtà diverse dalle proprie (non necessariamente solo italiane), mettere a disposizione le proprie competenze e individuare le skill necessarie per riuscire al meglio nei vari ruoli in cui si declina il mondo sportivo.
Combinare le specificità delle professioniste non solo crea occasioni di confronto costruttivo e stimolante, ma facilita collaborazione e crescita personale.
Da ultimo, risvegliare l’attenzione sulla questione femminile, declinata al mondo atletica, che non significa dare il via ad una lotta di genere maschi contro femmine, ma promuovere la collaborazione tra uomini e donne.
Perché pensi che ci sia bisogno di un progetto del genere?
Credo che un progetto del genere serva un po’ ovunque, non solo in Italia.
Da un lato, uomini e donne hanno potenzialmente le stesse opportunità, competenze, possibilità, persino ambizioni e questo vale tanto nella vita quotidiana, quanto nello sport.
D’altra parte è facile guardarsi intorno per rendersi conto che nonostante sui blocchi di partenza ci siano le stesse condizioni, fin dai primissimi metri dal via il percorso verso la leadership è decisamente più semplice per gli uomini che per le donne e questo, a mio avviso, per tre tipi di cause.
Per cominciare quelle oggettive, e a loro volta in certi casi diverse tra le varie nazioni, (pensiamo alle categorizzazioni sociali quali identità di razza, genere, sesso, disabilità e nazionalità che impattano in maniera diversa a seconda del paese in cui si abita), altre volte invece uguali ovunque (si stima, per esempio, che sulle spalle delle donne ricada ovunque oltre il 90% del lavoro non retribuito) e infine quelle soggettive, in quanto spesso siamo proprio noi donne a farci sopraffare da timori e paure, diventando così il nostro primo grosso limite di noi stesse.
Del resto è indubbio che uomini e donne siano diversi: l’attenzione, la sensibilità, le esigenze, i punti di vista degli uni differiscono da quelli delle altre, ma solo combinando o, meglio, considerando entrambe le visioni anche nel processo decisionale che governa il mondo sportivo, si riuscirà ad avere una gestione sempre più completa ed efficace.
Questo progetto è quindi indispensabile per promuovere l’inclusione e l’ammissione delle donne alla stanza dei bottoni, per favorire la collaborazione tra uomini e donne e per garantire una miglior gestione dello sport che, abbracciando visioni, competenze e capacità di uomini e donne, sia sempre più inclusiva e attenta alle diversità di qualsiasi tipo.
Qual è la situazione delle donne ai vertici in Italia? E all’estero?
Seppur migliorata negli ultimi anni, con le ultime elezioni CONI sono due donne le Vicepresidenti, Claudia Giordani e Silvia Salis, la disparità tra uomini e donne ai vertici nello sport in Italia è ancora marcata.
E non a caso ho scritto “ai vertici”: lato praticanti infatti, il mondo degli sportivi è equamente ripartito tra uomini e donne; donne verso le quali l’ago della bilancia pende a sfavore salendo nella scala piramidale. Ancora oggi ci viene certamente riservato un numero considerevole di posti in ruoli convenzionalmente femminili (amministrazione e segreteria) ma tale numero va però riducendosi, fino ad annullarsi, nelle posizioni chiave.
Analizzando i dati relativi ai vertici dei Comitati Regionali FIDAL, la media generale è infatti quella di 83% di uomini contro un 17% di donne, percentuali invariate negli ultimi due quadrienni, che mai vedono le donne eguagliare o superare gli uomini.
Entrando più nel dettaglio, balza subito all’occhio come queste cifre siano particolarmente restrittive al femminile in determinate cariche: su 21 presidenti di Comitati Regionali, solo una è donna (Piemonte), nessuna è Vicepresidente vicario mentre migliora la situazione alla Vicepresidenza, 6 donne sul totale.
Ben il 90% dei fiduciari tecnici regionali è uomo, così come l’89% degli addetti stampa e l’88% dei delegati provinciali. Sopra l’80% anche il numero dei consiglieri regionali (83%), mentre è di poco inferiore quello dei revisori dei conti (76%) e dei fiduciari regionali giudici (67%). Quello di segretario è il ruolo dove le donne si difendono meglio (58% uomini, 42% donne).
Seppur coi distinguo nazionali (la Federazione Bielorussa di atletica leggera è una sorta di mosca bianca con numerose donne ai vertici), la medesima situazione si ripete anche tra le federazioni nazionali di atletica leggera affiliate EA.
Da statistiche EA elaborate analizzando i dati 2009-2016, quello del Presidente è il ruolo maggiormente gestito da uomini (96,75% vs 3,25% con ben due anni, il 2014 e il 2015, senza donne ad occupare la massima carica federale). Di poco superiore all’83% la percentuale di uomini in veste di Segretario generale e Presidente di commissione, 75,06% i consiglieri di queste ultime. Sale invece al 44,16% (vs 55,84) la percentuale di donne in posizioni amministrative.
E anche all’interno della stessa EA, è necessario correre ai ripari: nei mandati dai quadrienni dal 2007 a quello conclusosi nel 2016 nessuna donna ha ricoperto la carica di Presidente o Segretario, e solo uomini ne hanno diretto il comitato esecutivo. Una sola donna ha guidato una commissione, all’interno delle quali le cariche sono ricoperte per quasi l’81% da uomini, come l’89% dei consiglieri federali.
Alla luce di quanto sopra, ben vengano le riforme federali che, sulla base del concetto di quota, ha introdotto un numero minimo di donne da eleggere in cariche dirigenziali all’interno delle stesse federazioni.
Sta a noi far in modo che lo strumento quota non diventi un’arma a doppio taglio, della serie l’importante è che sia donna, indipendentemente dalle competenze, per trasformarlo invece in una chiave di accesso che ci dia l’opportunità di mostrare le nostre capacità al vertice.
Pensi che ci siano poche donne interessate a ruoli di leadership? Perché?
Mi sembra che ci sia una sorta di circolo vizioso che genera poche donne interessate alla leadership e, quindi, poche donne in ruoli apicali.
Fermo restando che alla base servano conoscenza, preparazione e competenze, è anche vero che certe qualità possono essere allenate, certe skill imparate e poi coltivate. In alcuni casi noi donne siamo il primo grande ostacolo di noi stesse: non vogliamo metterci in gioco, non ci riteniamo all’altezza e ci sminuiamo, quasi fosse un peccato parlare di ambizioni al femminile, prendersi oneri ma anche onori per quel che facciamo, o non valorizzare i nostri punti di forza.
Altre volte invece sono le categorizzazioni sociali a tenere le donne lontane dal vertice, solo per citarne alcune parlo di cultura, religione, identità, disabilità, nazionalità e genere che esercitano un peso significativo nel promuovere o meno le donne.
Non sono molti i modelli di riferimento che possano stimolare e spronare le donne a far sentire la propria voce, ad impegnarsi e formarsi per arrivare ad esercitare un ruolo significativo nei processi decisionali.
E non sono molte le occasioni per emergere anche se, personalmente, credo talvolta sia necessario crearsi la propria occasione ed essere pronte a coglierla appena si presenta.
Il tuo modo di pensare e di agire è cambiato da quando hai partecipato al progetto iniziale della EA?
In tutta onestà, inizialmente non sapevo cosa aspettarmi da questo percorso ed ero persino abbastanza incredula di essere stata selezionata. Non nascondo di aver avuto anche il timore di non essere all’altezza.
Grazie alle formatrici, alle compagne di studio e alle figure che ci hanno stimolato e motivato durante il progetto, ho acquisito consapevolezza sul ruolo femminile, sulle implicazioni che determinate scelte e atteggiamenti comportano, sulle oggettive disparità e sulla sotto-rappresentazione di genere nello sport (e non solo).
Questo tema mi ha talmente incuriosito che è stato naturale continuare a documentarmi e cercare il confronto con altre persone per capire come, in concreto, invertire la rotta.
Da un semplice ‘sentito dire’ iniziale sono quindi passata ad una maggior consapevolezza e, il bagaglio di esperienze che sto riempendo ancora oggi, mi ha arricchito dal punto di vista personale e professionale, dandomi una visione più completa, una maggior consapevolezza e sicurezza in me stessa, oltre competenze che senza questa iniziativa non avrei potuto acquisire.
Può sembrare banale, ma se prima preferivo tacere per il quieto vivere, adesso faccio valere la regola dei 5 secondi: in maniera pacata e con dati reali, non ho più paura di far sentire la mia voce anche se in disaccordo con il pensiero di molti.
Ti aspettavi uno sviluppo del genere dal progetto iniziale? Come ti sei trovata nel ruolo di formatrice di giovani donne?
Dopo lo spaesamento iniziale cui ho accennato poco sopra, mi aspettavo uno sviluppo più veloce e massivo di quello che stiamo registrando, vuoi perché vorrei davvero cambiare le cose al più presto, vuoi perché uno dei miei mantra è quello di non rimandare mai al domani quel che si può fare oggi.
Vero è però che alla base di una simile rivoluzione serva un forte cambiamento culturale che è impensabile possa avvenire in tempi molto ristretti.
Quel che è indispensabile è iniziare a risvegliare la coscienza di massa, rendendo le persone consapevoli della situazione e coinvolgendo sia chi oggi già si trova in posizioni di vertice (prevalentemente uomini, senza il cui impegno attivo e sostegno alle donne è impossibile cambiare la situazione), sia le generazioni più giovani per creare una base consapevole che possa lavorare con l’obiettivo di promuovere competenza, non nepotismo.
Sono entusiasta dell’incarico di formatrice di altre donne: è una grande responsabilità e mi interrogo spesso sul mio ruolo. Insieme a preparazione, conoscenza e competenze, ritengo che un sano dubbio sia comunque il motore indispensabile per tenermi continuamente aggiornata, mettermi in gioco e motivarmi.
E’ come se si trasformasse in energia per spronarmi a dare il massimo e trasmettere così alle ragazze, con le quali interagisco, informazioni, entusiasmo e voglia di mettersi in gioco.
Chi sono i tuoi punti di riferimento, sia maschili che femminile, nel mondo dello sport e dell’atletica?
Sicuramente Donna Fraser, campionessa in pista e nella vita per come ha saputo affrontare anche situazioni a prima vista invalidanti, mettendosi in gioco e impegnandosi in prima persona per le donne e per favorire l’inclusione, infatti non è per caso la sua nomina OBE.
Poi Amelia Earhart, pioniera dell’aviazione femminile in un momento storico-culturale complicato e non particolarmente favorevole alle donne. E, anche se forse scontato, Nelson Mandela, simbolo di impegno e determinazione che ha indicato lo sport come linguaggio universale che lega popoli e culture diverse.