Revolution, Fantasia al Potere, il Sessantotto, il Maggio che diventa Ottobre, il singhiozzo lungo della chitarra di Jimi Hendrix, l’Uomo a una Dimensione, quella totale, del progresso, della conquista.
Rivista, rivisitata ad oltre mezzo secolo di distanza, La Settimana non si spoglia dall’aspetto e dalla sostanza di discrimine storico, di troncati ormeggi con il passato, di volo librato verso il futuro. E sbrigare con il raccolto – 21 record mondiali – confina con il concetto della riduzione.
Messico, il primo tartan non si scorda mai e l’aria fina dei 2248 metri di altitudine (altura, dicono lassù) può fare il resto. Per non parlare della formidabile generazione di campioni che lassù si diede appuntamento.
Sempre coinvolgente rivisitare la settimana delle settimane, attraverso immagini rapide, flash della coscienza, ricordi sanguinosi della strage della piazza delle Tre Culture che il regime provò a cancellare, sensazioni, espressioni, gesti, gioie, disappunti, magari cominciando con il viso rassegnato di Lynn Davies dopo l’atterraggio di Bob Beamon.
“Sarebbe bene andassimo tutti a casa”, disse quello che ancora per qualche turno di inutili e svuotati salti era il campione olimpico in carica, capace quattro anni prima di domare il vento contrario e una pedana appiccicosa di fango, ponendo la più solida delle basi per meritare il titolo di più grande atleta gallese di sempre, anche dopo la meta-meraviglia di Gareth Edwards del ’73 contro gli All Blacks. In un piccolo Principato che delira per l’ovale non è una piccola conquista.
Minacciava pioggia, in quella sera messicana, e la pioggia era sempre stata amica di Lynn, ma il cielo non produsse nulla, solo l’attesa di un terribile temporale e l’aria sprizzava scintille e dentro quella galleria di potenza elettrica era atteso chi l’avrebbe saputa sfruttare e là dentro si lanciò Bob.
Senza macchina del tempo, solo il ricordo, fotografie (quasi tutte in bianco e nero), vecchi filmati lontani dai modelli di alta definizione, possono aiutare in questa recerche, in quest’opera di riordino delle tessere che formano il mosaico di quel 18 ottobre 1968.
“Cos’ho fatto?”. “Hai saltato 29 piedi, anche di più”. “Va be’, Ralph, ora salti tu e mi dai un calcio nel culo”. “No, Bob, io così lontano non ci arrivo”.
Prima di esser schiacciato da quel che ha appena combinato, di sentire le ginocchia che non tengono, di rischiare il collasso, Bob Beamon è allegramente inconsapevole.
Ha appena saltato lungo, così lungo che i giudici hanno deciso di non servirsi del lettore ottico e di ricorrere al del vecchio nastro misuratore (“ehi nonno, sta arrivando Natale” dice Boston al presidente della giuria: è Adriaan Paulen, futuro presidente della Iaaf) e a un certo punto uno mormora “fantastico, fantastico” e dice 8,90 e Bob che non mastica il sistema metrico decimale non capisce e allora chiede lumi a Boston, che gli ha dato una mano in qualificazione quando dopo due nulli stava per uscir fuori e anche per questo primo salto di finale, gli ha detto : “vai e fai un salto valido”.
“E ora, il russo e l’inglese cosa faranno?”. Il russo è Igor Ter Ovanesian detto il principe Igor: “I nostri sembrano salti da bambini”. L’inglese è Lynn Davies, gallese, quello che dice che è l’ora di andarcene tutti a casa. “Bob, hai distrutto la gara”, dice Ralph.
E tutto questo intrecciarsi di parole, tutto questo dopo, dura molto più di quel suo decollo, di quella parabola altissima, a più di un 1,30 da terra, di quell’atterraggio in cui non un solo centimetro viene buttato: un pterodattilo che prende terra, un Concorde che tocca la pista.
Tutto unico, perfetto, destabilizzante: il record del mondo era 8,35, di Boston e di Ter Ovanesian, un anno prima, stessa pedana, uno dei primi a capire che lì sarebbe avvenuto qualcosa di mostruoso.
E così, quando diventò commissario tecnico dell’Urss e la sorte gli diede quel capolavoro di elasticità che era il suo compaesano di Armenia Robert Emmian, decise di sfruttare i vantaggi della quota e a Tsakhadzor, Caucaso, organizzò lì per lì una garetta e Robert arrivò a 8,86.
Ancora di quel giorno sull’altopiano del Messico: si sapeva che Bob, 22 anni, newyorkese del quartiere di Jamaica, poteva fare il colpo perché aveva saltato 8,30 indoor ma poi era rimasto a riposo forzato, sospeso dall’Università del Texas perché si era rifiutato di gareggiare contro Brigham Young: “i mormoni sono razzisti”.
Ma nessuno poteva azzardare potesse arrivare sin laggiù, dove finisce la pedana, dove non arriva l’occhio elettronico.
Di tante stupite e ammirate cose che vennero scritte, la più ironica testimonianza rimane quella del povero Renato Morino che raccontava di una cena in cui c’era chi sottolineava l’importanza del vento, ancora due metri spaccati a favore naturalmente, chi la rarefazione dell’aria, chi l’atmosfera elettrica offerta dal temporale appeso all’orizzonte, chi la novità e l’efficacia del prodigioso tartan, e quel salto infinito diventava sempre più corto, sino a quando la presa di coscienza ebbe la meglio, togliendo di mezzo le cesoie di analisi piccine, limitate.
Era stato, come sulla spiaggia di Kitty Hawk, un volo e questo doveva bastare.
Per batterlo, sarebbero stati necessari quasi 23 anni, il giorno della musa di fuoco che ispirò Mike Powell, della parca che impedì a Carl Lewis di chiudere il suo inseguimento: 8,95 a 8,91.