Etienne Gailly (foto archivio storico)
Etienne Gailly (foto archivio storico)

Dicono che un fulmine non colpisca due volte lo stesso albero. In atletica è capitato: nella stessa città. Londra, e sulla stessa distanza, la maratona. A quarant’anni di distanza: il 24 luglio 1908 e il 7 agosto 1948. Unica differenza, lo stadio, ma dalle stesse iniziali: White City e Wembley.

Il 21 ottobre del ’71, a meno di cinquant’anni, fiaccato da una vita breve ma terribilmente intensa, muore Etienne Gailly.

Qualcuno lo aveva battezzato il Dorando Pietri del secondo dopoguerra, colui che a quarant’anni dal dramma del piccolo italiano, seppe riproporre un finale che tenne il pubblico con il fiato sospeso, sino a uno scioglimento cosparso di applausi e di un allentamento del rito cardiaco dei 100.000 di Wembley.

Gailly era uno di quei belgi che, dopo la blitz krieg delle truppe tedesche nella primavera del ’40, era riuscito a lasciare il paese per rifugiarsi in Inghilterra unendosi agli altri “europei liberi”(francesi, olandesi, norvegesi, danesi, polacchi, cecoslovacchi) che avevano deciso di continuare la lotta contro il nazismo indossando la divisa britannica.

In Belgio era tornato nel ’44, da paracadutista, appena prima di una delle più disastrose operazioni alleate: Market Garden avrebbe dovuto assicurare il possesso dei ponti sul Reno e favorire l’invasone della Germania e una fine anticipata del conflitto. Non andò così e la guerra proseguì sino alla primavera del ’45.

Quando venne il giorno dell’armistizio, Gailly, tesserato per un vecchio e illustre club londinese, I Belgrave Harriers, decise che avrebbe voluto offrire una medaglia olimpica al suo paese che, oltre all’occupazione, aveva dovuto subire l’estremismo del leader rexista – e favorito di Hitler – Leon Degrelle.

Quando nel ’48 i Giochi di Londra tornarono a riunire (quasi) tutto il mondo, Etienne non aveva mai corso una distanza superiore alle 20 miglia, 32 chilometri, ma la sua condotta nella maratona olimpica fu all’insegna del coraggio, tipico degli uomini delle truppe aviotrasportate: attaccò, prese un vantaggio che toccò i 41” dopo metà gara, fu costretto ad affrontare una crisi, la superò e, ormai in vista dello stadio imperiale di Wembley, attaccò l’argentino Delfo Cabrera e prese qualche decina di metri.

L’ingresso in pista coincide con l’inizio del suo calvario: stroncato dalla fatica, cadde una prima volta, accompagnato da un profondo respiro del pubblico. Superato da Cabrera, seppe rialzarsi senza che nessuno l’aiutasse, stramazzò ancora e fu costretto ad assistere al sorpasso del britannico Tom Richards.

Indomito, accompagnato dagli applausi, riuscì a rimettersi in piedi, a tagliare la linea del traguardo, a conquistare la medaglia che era il suo obiettivo, ma non fu in grado di riceverla sul podio. Era in infermeria, prostrato e invitto.

Qualche anno dopo, con il fratello Pierre, entrò a far parte del contingente delle Nazioni Unite che affiancò le truppe americane nella guerra di Corea. Dal 38° parallelo Pierre non fece ritorno, Etienne sì, ma ferito prostrato dalle bufere che aveva attraversato.

 

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