Irena Szewiska (foto Fidal archivio)
Irena Szewiska (foto Fidal archivio)

Nella nostra galleria di personaggi che è stucchevole definire immortali, finalmente una donna: era l’ora. E’ Irena Kirszenstein-Szewinska che se n’è andata un anno e mezzo fa e ha rappresentato tutto quel che, nel momento della morte, ha detto Sebastian Coe: per la Polonia un’eroina, per l’atletica una magnifica amica.

Irena portava addosso e in quel suo sguardo allungato i segni di storie che il Secolo Breve ha provato a spazzare, quelle di una Polonia ebraica, descritte da Isaac Singer in uno dei libri che devono esser letti: “La Famiglia Moskat”.

Con i suoi occhi orientali, i capelli sempre ordinati, anche prima di prendere il via, quella sua statura che la ergeva di una testa sulle altre, sembrava provenire da uno di quei salotti borghesi scomparsi e distrutti, da una di quelle strade di una Varsavia martellata dalla Luftwaffe, soffocata dalle barbarie che domarono le insurrezioni.

Di quella Polonia che non esiste più devono averle parlato i genitori (mamma ucraina, padre polacco) che si erano salvati dall’occupazione del Governatorato Generale e dall’Olocausto rifugiandosi in Unione Sovietica: il suo luogo e la sua data di nascita – una ancora prostrata Leningrado, nel 1946 – sono altri elementi, forniscono altre rivelazioni.

Irena è stata europea, mondiale, olimpica, meravigliosamente assoluta, poliedrica e proteiforme, si dice in questi rari casi di naturale e disinvolto trasformismo, capace di una durata concessa a pochi e a poche.

Sul podio del vecchio continente andò dieci volte, cinque da campionessa, tra il ’66 e il ’78. Dodici anni di storie memorabili anche alle Olimpiadi, dal ’64 al ’76, con sette medaglie, tre d’oro. Un fenomeno di longevità a livelli non alti, celestiali. Campi d’applicazione, i più svariati: 100, 200, 400, lungo, pentathlon, 4×100.

E partendo dalla fine, come spesso capita nelle buone storie, alla prima Coppa del Mondo, Dusseldorf ’77, lasciò alle spalle le giovani leonesse Barbel Wockel nei 200 e Marita Koch nei 400. Aveva trentun anni – le sue avversarie nove e undici di meno – e dava l’idea di essere un pezzo di passato e un’assicurazione sull’eternità.

La lunga signorina Kirszenstein era apparsa sulla scena come lunghista e sprinter, al fianco di una ragazza con i capelli di stoppa con cromosomi sballati: Ewa Klobukowska.

Seconda a Tokyo ’64, dietro Mary Rand da record del mondo sull’ultima pedana in terra battuta della storia olimpica (quattro giorni dopo quell’umida pista di decollo si sarebbe rivelata perfetta anche per il gallese lynn Davies), prima di assaggiare il primo oro con la staffetta polacca.

L’anno dopo, a Praga, seconda, a meno di una spanna da Ewa, per un doppio record mondiale dei 100, 11″1 che, dopo il bando, sarebbe rimasto sua personale proprietà.

A Citta del Messico Wyomia Tyus e Barbara Ferrell l’avrebbero preceduta sul traguardo, tenendo duro di fronte alla sua sublime fase lanciata. Il verbale di gara dice 11″08, 11″15, 11″15.

Un “fuori onda” dell’epoca offre, prima della partenza, una lunga ragazza in maglia bianca a pantaloncini rossi intenta a ravviarsi i capelli. Irena si rifece con fortissimi interessi nei 200 infilzando le australiane Raelene Boyle e Jennifer Lamy, con un record del mondo portato a 22″58.

Con Irena di mezzo c’è il rischio di scrivere un volume corposo come quello meraviglioso del suo connazionale Singer. Un capitolo è dedicato al ’74 quando va a Potsdam, una delle tane delle terribili “panzerine” in canottiera blu, martello e compasso, e le mette tutte in fila, da Renate Stecher in giù, correndo in 22”0, record del mondo andato a libro anche come 22”21, primo limite della storia con cronometraggio elettrico.

Era in un periodo di condizione strepitosa e nove giorni dopo, a Varsavia, firmò la prima irruzione sotto i 50”: 49”9 manuale.

Due anni dopo, ancora in Polonia, a Bydgoszcz (che le ha dedicato un meeting in suo ricordo), tolse per due centesimi – 49″75 – il record del mondo, fresco di conio, alla “bambina prodigio” della Ddr, Christina Brehmer, ma non era che all’inizio dell’opera di demolizione del giovanissimo talento.

Poco più di un mese dopo, ai Giochi di Montreal, alla tedesca democratica affibbiò un distacco abissale, da cronoprologo: 1″22. In quell’occasione il record del mondo passò a un moderno, o è meglio dire contemporaneo, 49″29. Una rilettura del photofinish, effettuata con rigore dall’Associazione degli Statistici, le ha assegnato un centesimo in meno.

Un simbolo, un monumento, la donna che visse molte volte, unica nella storia ad aver stretto in pugno i record del mondo di 100, 200 e 400. Fanny Blankers Koen è stata la mamma volante di Londra 1948, Irena ha attraversato la storia. Per lei, ogni volta che il suo nome viene pronunciato, assale il desiderio di intonare un commosso kaddish.

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