Un attimo dopo essere arrivato, aver vinto, guardato il tabellone, aver chiesto a Tom Farrell: “Senti, ma quale è il record del mondo?”. “Quello che vedi sul tabellone, l’hai fatto tu”, Ralph Doubell deve aver pensato a Frank Stampfl più o meno come Harold Abrahams pensò a Sam Mussabini, dopo aver ripreso fiato nel clamore di Colombes 1924.
Quanto gli doveva? Tutto. “Il cervello deve essere alleato della fiducia, del coraggio, della voglia di vincere”: le parole possono lasciare il segno quando vengono da chi con il destino aveva ingaggiato un lungo scontro riuscendo ad avere la meglio.
Stampfl nasce a Vienna nel ’15, sua madre è una principessa russa, Caroline Yusupov: studia arte, scia, lancia il giavellotto.
Quando arriva l’Anschluss e gli austriaci scendono festanti nelle strade sventolando la bandierina con la svastica, scappa in Inghilterra e studia alla Chelsea School of Art.
Quando gli dicono che se non ha un’occupazione, deve tornare in Austria, chiede aiuto e chi gli dà una mano è Harold Abrahams, che ha vinto l’oro per Britannia ma è un ebreo lituano.
Harold gli procura un posto da insegnante di educazione fisica e Frank comincia a sperimentare nuovi metodi di allenamento: non inventa l’interval training – il padre è il tedesco Woldemar Gerschler, demiurgo del più grande mezzofondista veloce della storia, il sassone Rudolf Harbig – ma lavora in quella direzione, la perfeziona.
Nel 1940, con altri 1200 tedeschi, austriaci e italiani residenti nel Regno Unito e internati, viene deportato in Canada: la nave su cui viaggia, la Aradora, viene silurata da un U-Boot.
E’ tra gli 800 che si salvano. Lo riportano in Inghilterra e lo deportano ancora, questa volta in Australia dove si sposa, nel 1946 riesce a tornare in Inghilterra, si offre come allenatore ma è uno straniero, un “nemico”.
Lavora per una scuola e ottiene eccellenti risultati nelle gare giovanili, riesce a collaborare con Cambridge e Oxford, allena Roger Bannister e le “lepri” Chris Chataway e Chris Brasher, ma quando il 6 maggio 1954 a Iffley Road il muro dei 4’ cade, non partecipa ai disadorni festeggiamenti: sale sul primo treno per Londra, evita di apparire ed è felice soltanto perché altri atleti chiedono il suo aiuto.
Torna in Australia, lavora alla Melbourne University, trova Doubell, che ha cronici problemi al tendine d’Achille, lo recupera, lo porta alla medaglia d’oro e al record mondiale. Di tipi così, perse le tracce.
Se per Claude Levi Strauss tristi erano i tropici, per Wilson Kiprugut crudeli furono gli antipodi: beccato da un “kiwi” neozelandese, saltato da un “canguro” australiano (e, per non smentirsi, battuto da un altro “aussie”, Noel Clough, ai Giochi del Commonwealth 1966), gli rimane la gloria di esser stato il primo kenyano ad aver messo le mani su una medaglia olimpica.
Alla fine, sono state due: avrebbero potuto essere molto diverse. Il disappunto è come una brace che non si spegne.
Tutto prende il via il 12 dicembre 1963 quando l’Union Jack viene ammainata e, sulla piazza d’armi di Nairobi, il governatore con prerogative viceregali china lo sguardo e Yomo Kenyatta agita lo scacciamosche di crine di zebra e spalanca il suo sorriso e molti altri lo imitano, mostrando quei loro enormi incisivi.
E’ il momento della bandiera con lo scudo masai, dell’inno che evoca albe stupefacenti: è nato il Kenya.
E tra i King African Rifles che stanno per essere sbandati presta il suo ultimo presentat’arm Wilson Kiprugut, il giovanotto che viene da Kericho, circondata dalle piantagioni di tè di un verde splendente, metallico.
Wilson era stato portato ai Giochi del Commonwealth del ’62, a Perth, ma solo per la 4×400, quinta.
Due anni dopo, il primo segnale sugli 800: vince gli East African Games, ospitati da Kisumu, la città portuale sulla sponda kenyana del lago Victoria. Imposta la finale di Tokyo nell’unico modo che conosce, con un ritmo d’inferno ma poco prima del passaggio ai 600 vede l’ombra tutta nera di Peter Snell che lo salta: una corsa violenta, muscolare: manca solo il pallone da portare in meta.
Wilson vacilla quando viene saltato anche dal canadese William Crothers ma è capace di reagire quando sente il fiato del piccolo giamaicano George Kerr. Medaglia di bronzo, la prima di una lunga storia.
Snell lo ringrazia: è stato anche grazie a Wilson che l’uomo di Opunake ha raccolto il secondo tempo più veloce della sua vita, 1’45”1, dopo il record del mondo, otto decimi più in basso.
Cinque giorni dopo, suoi anche i 1500 in un’accoppiata che gli anni hanno trasformato in arca perduta.
Nel ’67 e nel ’68 Kiprugut domina ancora negli East African Games, ancora a Kisumu e a Dar es Salaam che non è più la capitale del Tanganyka, ma della Tanzania: tempi importanti, appena sopra 1’46”.
Ha trent’anni e sa che a Messico ha a disposizione l’ultima possibilità: passa alla campana appena sotto i 51” con cinque metri sulla muta.
Li mantiene ancora ai 600 quando sbuca Ralph Doubell, compaesano di Ron Clarke, ma di altra tempra agonistica. Gli inglesi hanno un bel termine: unheralded, non annunciato. In realtà ha alle spalle la vittoria alle Universiadi di Tokyo e l’ombra rassicurante di Stampfl.
Attacca, salta Wilson che traballa, perde qualche appoggio ma non rompe come un trottatore che ha smarrito il ritmo: prende la scia di Ralph e di più non può fare: Doubell pareggia Snell a 1’44”3, Kiprugut porta il record del Kenya a 1’44”5.
Come Sam, il pianista di Casablanca, l’ha suonata ancora, ma stonando qualche nota. Vent’anni dopo Paul Ereng diventerà il primo kenyano campione olimpico del mezzo miglio.
Doubell non ebbe una carriera lunga: perseguitato da infortuni, mollerà presto per conquistare una laurea ad Harvard, diventare il numero uno australiano della Deutsche Bank e occupare a lunga la carica di direttore del Telstra Stadium di Sydney, che nel 2000 si chiamava Olimpico.
Stampfl è morto nel ’95: anche nei quindici anni passati in carrozzina (quadriplegico dopo un incidente d’auto) non aveva mai smesso di allenare.
Kiprugut è arrivato al traguardo degli 80 anni da solo, senza farsi rimontare.