Dopo il guanto lanciato a distanza, sull’asse Westfalia-Alta Francia, il prossimo “torneo” è in programma sabato 6 febbraio a Rouen, non nella piazza della cattedrale, sotto la Torre del Burro, né in quella che fu fatale a Jeanne d’Arc, ma in un’arena coperta.
È la sfida tra Armand, giovane cavaliere di Uppsala, e Renaud, feudatario d’Alvernia con antiche radici nella Charente.
Quando partono per la rincorsa, asta in resta, questi singolari atleti riportano al clima di una delle più antiche forme di competizione sportiva, molto costosa, riservata a pochi, pericolosa tanto da provocare la morte di un sovrano di Francia, Enrico II.
Le lance da giostra erano di legno e appena colpivano l’avversario o il suo scudo, finivano in minute schegge, nel caso del povero Enrico, fatali. Capita a volte anche con le aste piegate sino al punto critico, o oltre.
La rivalità tra Armand Duplantis e Renaud Lavillenie non contiene un grammo di ferocia – d’altra parte, è soltanto nei vecchi film di Hollywood che il torneo è descritto come uno scontro crudele, animato da aspre insanabili inimicizie – ma ha in sé qualcosa di eterno, di umano, fatalmente anche di letterario: due diverse età che si confrontano.
Un giovane di strana origine, con un passato da enfant prodige, dotato di strani, enigmatici occhi etruschi, compare in scena, brucia le tappe come se possedesse la ricetta del fuoco greco e la sua frequenza su quote alte e altissima – sino a 6,17, 6,18 – diventa così fitta e assidua da sfociare in vertici inusitati e in previsioni che provocano l’impallidire di proiezioni più o meno fantasmagoriche che qualche matematico si azzarda a confezionare: i 6.20 sono vicini, i 6,30 alla portata e l’immagine della scalata al secondo piano non sarà più sufficiente per dare una dimensione di pronta presa.
Duplantis è un Peter Pan, è un Ariel e, a 21 anni, ha a disposizione lunghi anni di ascese senza precisi confini.
Con il 6,02 di domenica, a un paio d’ore dal 6,01 dello svedese d’America, Renaud Lavillenie, che lassù non saliva dal 2016 e che di Duplantis è più anziano di 13 anni (evito l’aggettivo “grande”, così di moda) ha trasmesso una volontà molto semplice, lontana dalle posticce costruzioni psicologiche che servono ad allungare i pezzi, a renderli più intricati, a far “lievitare” la loro apparente qualità.
Nessuno scettro, nessun trono, nessun onore perduto, nessun rancore nei confronti del ragazzo volante: solo la constatazione che la storia non è ancora finita, che la partita per lui, gran tifoso del Clermont Auvergne di rugby, richiede tempi supplementari per vendere cara la pelle, per passare indenne in mezzo ai pali.
Lavillenie è uno di quelli che resteranno, anche quando qualche nuovo prodotto genetico salterà sette metri e mezzo: non è facile, scartabellando nei sacri testi, scovare chi sia riuscito ad abbattere quel che più che un regno era un monopolio, quello di Sergei Bubka per quasi trent’anni padrone, a parte i dieci minuti di impertinenza di un altro francese, Thierry Vigneron detto TinTin.
Quella scalata a 6,16 a Donetsk, città d’adozione dell’ucraino, dove chi era stato battezzato sputnik e zar si era spinto a 6,11 e 6,15, rimane una delle più coraggiose incursioni nella storia dello sport, un caposaldo in quella francese, paragonabile soltanto ai raid agli antipodi del ’79 e del ’94 quando i Bleus sistemarono a casa loro gli All Blacks.
La prima volta capitò un 14 luglio. Immaginatevi i titoli. E così la sua resurrezione non può che portare gioia, in attesa della disfida di Rouen.