25 maggio 1935: il giorno dei giorni dell’Atletica

86 anni fa i 6 record del mondo che Jesse Owens fece in 45 minuti

Per cominciare a esplorare la caverna (quella delle idee platoniche? quella dell’uomo primitivo che cominciava a sentir frullare qualcosa nel cervello? quella dei quaranta ladroni?), la caverna dell’atletica, buia e sfavillante, passata dalle torce alle candele, ora ai led, niente di meglio che regalarsi un Natale, il migliore dei Natali lontani, passati e mai perduti, direbbe Dickens.

Di solito il Natale cade il 25 dicembre, a me è capitato di festeggiarne uno il 25 agosto: ero con mio figlio a Yellowstone e veniva ricordato il giorno di un’improvvisa tempesta di neve che aggredì i primi visitatori del parco, armati di album da disegno per tracciare un ricordo dei geyser, dei cervi mulo, degli orsi.

Il Natale dell’Atletica, ricco di doni, di stupori che il tempo non ha opacizzato, è per me il 25 maggio 1935.

Stadio Ferry Field, Città Ann Arbor, Stato Michigan: sei record del mondo migliorati o uguagliati da Jesse Owens in meno di un’ora, il giorno dei giorni, un annuncio della settimana delle settimane che si sarebbe vissuta, poco più di un anno dopo,  all’Olympiastadion di Berlino, lo stesso luogo dove il miglior Bolt corse in 9”58 e 19”19 e poi, timidamente, domandò: “Scusate, ma chi è questo Owens di cui parlate sempre?”.

Usain era simpatico e venne perdonato.

Quel che capitò è stato tramandato dalla storia. Per quanto ho potuto, ho provato a tramandarlo ogni volta che la polvere del tempo, scivolando granello dopo granello nella clessidra, annunciava un anniversario tondo o costruito sulla moltiplicazione dei lustri.

Il giorno dei giorni è la bellezza, è la naturalezza del gesto, è l’approdo oltre porte iniziatiche.

Jesse Owens (foto archivio storico)
Jesse Owens (foto archivio storico)

L’ultima considerazione vale soprattutto per il lungo: James Cleveland “Jesse” Owens saltò 8,13 e quel record tenne duro per un quarto di secolo. Una vecchia foto, virata in seppia, lo offre in volo: la pedana sembra un sentiero di campagna. Sullo sfondo, un serbatoio per l’acqua, come lungo le ferrovie del vecchio West.

A volte uno si domanda quale periodo, quale episodio vorrebbe vivere se fosse possibile viaggiare nel tempo. Stephen Hawking diceva che è possibile, ma so già che quando sarà consentito sarà una faccenda per gente con il conto in banca molto cospicuo.

Rimarrà un sogno, e comunque sarei indeciso tra il 6 maggio 1954, quando Roger Bannister, sulla pista di Iffley Road, Oxford, diventò il primo uomo a scendere sotto i 4’ nel miglio e il Natale di Jesse.

Considerato il costo dell’intrusione nella dimensione spazio-temporale, converrebbe puntare su Ann Arbor: quasi un’ora di delizia pura contro quattro minuti meno sei decimi.

La ricostruzione del giorno dei giorni presenta i problemi di quando si va a rovistare nel mito, più o meno come investigare su quando Giove si trasformava in nuvola o in toro, dopo aver adocchiato una bella ninfa o una comune mortale.

Raccontano che Jesse non stesse molto bene, che avesse mal di schiena, che il suo allenatore lo avesse consigliato di lasciar perdere, ma lui voleva dare una mano all’Università dell’Ohio che gli aveva assegnato una borsa di studio.

E così a questo punto è meglio lasciar parlare lui, in un’intervista possibile, come quelle con Cleopatra o con Napoleone e, quanto scritto in corsetto, è quel che immagino avrebbe potuto raccontare.

Sono passati molti anni e anch’io ho ricordi confusi. Forse mi ero fatto male alla schiena, una settimana prima, cadendo dalle scale o, magari, avevo giocato una partitina di football tra amici e mi ero infortunato.

In un caso o nell’altro, facevo fatica a muovermi e Larry Snyder, il mio allenatore, mi disse che forese era meglio rinunciare. Ma io non me la sentivo di privare la Ohio State del mio aiuto e così andammo.

Jesse Owens (foto archivio epoca)
Jesse Owens (foto archivio epoca)

Andarono al campo che quell’anno ospitava le finali delle Big Ten, lo scontro tra le dieci maggiori università del Centroest degli Usa. Gli inglesi avevano Oxford-Cambridge, i coloniali facevano le cose più in grande.

Sabato 24 nelle prove di qualificazione Larry mi disse “Jesse, vacci piano” e così feci, giusto per tornare in pista il giorno dopo.

L’indomani mi svegliai con la schiena quasi bloccata. Ehi, dico a un amico, dammi una mano per mettermi la tuta. Prima gara, le 100 yards: scavo le buchette e provo a mettermi in posizione di partenza. Dolore. Ma quando lo starter spara, vado via rilassato, fluido.

Sta scendendo la grazia: all’arrivo due cronometri dicono 9”4uno 9”3. Gli danno 9”4record mondiale eguagliato.

Larry mi grida: “come va”? Bene, dico, dolore sparito.

Phil Diamond, capo dei cronometristi, confesserà anni dopo che 9”3 era il tempo più giusto. Jesse vinse con cinque yards su Robert Grieve, 9”9. Sono le 15,15.

Vado verso la pedana del lungo e intanto penso: tra meno di mezz’ora devo correre le 220 yards, qui ci sono venti concorrenti, la gara andrà avanti due ore. Ok, un salto e via.

E si concede un azzardo: va verso la buca e piazza un pezzetto di carta, fissato da un sassolino, a 7,98, record mondiale del giapponese Nambu.

Quando atterrai nella sabbia, capii di esser andato lungo: il foglietto lo avevo alle spalle e i compagni gridavano: ehi, uomo, l’hai fatta grossa.

Sono le 15,25, Jesse, 8,13, il primo uomo oltre gli 8 metri. Il record tenne duro per 25 anni, due mesi e 18 giorni, sino all’8,21 d Ralph Boston. Secondo è Wiills Ward, 7,67.

Jesse è a metà dell’opera: alle 15,45220 yardssenza curva, su un rettilineo che non finisce mai, furlong, mutuando il termine dalle brevi gare di galoppo.

20”3 e record (ritoccato di tre decimi: era di Ralph Metcalfe, oro in staffetta a Berlino e più tardi quattro volte al Congresso per i Democratici) valido sia sulla distanza “imperiale” che su quella metrica, in pratica anche sulle 200 yards di passaggio, quindi 2 primati distinti.

Anche in questo caso Diamond interverrà dicendo che 20”2 sarebbe stato più corretto. Nella scia di Jesse, Andrew Dooley, 20”7, sfiora il vecchio record. Il limite tenne sino al 1949 e al 20”2 di Melvin Patton, lo stesso a correre per primo le 100 yards in 9”3.

Un quarto d’ora dopo, sono le 16stessa distanza, ma con dieci ostacoli di mezzo22”6 e questa volta il progresso è di quattro decimi (un 22”7 datato 1934 di Glenn Hardin non era mai stato presentato all’omologazione), lasciando Phil Doherty a sei decimi.

Di fatto, come la distanza piana, sempre due record perché valeva anche quello di passaggio sulle 200 yards a ostacoli.

Anche in questo caso, testimonianza postuma di Diamond: ”Ebbi un attimo di distrazione quando la pistola sparò e così finii per approvare il tempo più alto. Altri due cronometristi avevano preso 22”4″.

Tirando le somme, a Jesse in quel giorno poteva andare meglio, ma anche così…

Jesse Owens (foto archivio epoca)
Jesse Owens (foto archivio epoca)
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