Larissa e Gianni Iapichino (foto personale gentilmente concessa)
Larissa e Gianni Iapichino (foto personale gentilmente concessa)

Il legame che corre tra Fiona May, Gianni e Larissa Iapichino e le genealogie delle famiglie Ottoz, Tamberi e Tortu, conduce sul sentiero delle storie di famiglia, dei figli e delle figlie che seguono tracce materne e paterne. In breve, all’ereditarietà.

In vena di citazioni bibliche, Imre generò Miklos ed entrambi i Nemeth finirono per conquistare l’oro olimpico, il padre nel martello a Londra ‘48, il figlio nel giavellotto ventotto anni dopo a Montreal.

Dall’alto del doppio oro e dei quattro record mondiali (tre Imre, uno Miklos) nessuno li ha mai insidiati.

Solo i fratelli Robert e Christoph Harting, con la successione dinastica del titolo olimpico nel disco possono essere messi su un piano molto vicino. Più o meno.

Imre, che non riuscì a varcare per poco la linea dei 60 metri (l’impresa toccò al suo protetto Jozef Czermak, su successore sul podio olimpico), avrebbe voluto che il figlio seguisse le sue orme e i suoi “giri”, ma Miklos era di altro avviso e dopo esser riuscito a digerire le delusioni del ’68 e del ‘72 (“in Ungheria non è facile esser figlio di chi ha conquistato una medaglia d’oro”), seppe attendere la maturità dei 30 anni per fare il colpo concesso a pochi: al primo lancio, 94,58, record del mondo, la parte anteriore del giavellotto appena oltre il settore.

Pur risvegliando tutto il “sisu” possibile, il finnico Hannu Siitonen finì a quasi sette metri.

Appena sotto i Nemeth, i Miller. Lennox mise al mondo Inger che, sotto un’altra bandiera, americana e non giamaicana, collezionò un titolo olimpico nella 4×100, due titoli mondiali, 200 e staffetta, due secondi posti mondiali e chiuse il suo ciclo con 10.79 e 21,77 che le assicurano tuttora il 21° e il 16° posto nella lista di sempre sulle distanze dello sprint.

Papà Lennox che, come diceva Paolo Rosi, gareggiava con la “maglietta della salute”, ha recitato parti importanti in due finali olimpiche: accusò più o un meno un metro, nove centesimi, da Jim Hines (9″95 a 10″04) in quella di Città del Messico e quattro anni dopo, a Monaco di Baviera, avvantaggiato dall’assenza di Eddie Hart e di Ray Robinson, soprannominati “i dormiglioni”, salì ancora sul podio, terzo, alle spalle di Valeri Borzov e di Robert Taylor, tre centesimi davanti al piccolo sovietico (azero di etnia) Aleksandr Korneliuk, noto per le sue partenze fulminee.

Una delle protagoniste dell’Olimpiade bavarese, la bella Heidi Rosendahl, campionessa nel lungo e della 4×100, seconda nel pentathlon dopo lotta selvaggia con la nordirlandese Mary Peters, sposò il giocatore di basket, campione Ncaa, John Ecker: dalla loro unione, cinque anni dopo i fasti monacensi di mamma, nacque Danny, uno dei 25 che hanno saputo scalare 6,00 servendosi di un’asta e in possesso di una buona collezione di medaglie: un oro e un bronzo ai Mondiali indoor, un eurobronzo indoor, un terzo posto ai Mondiali all’aperto.

Quel che non riuscì a papà Mike Carter (sconfitto a Los Angeles da Alessandro Andrei poco prima di esordire nei San Francisco 49ers, e di lì a sei mesi conquistare il SuperBowl), è riuscito alla figlia Michelle, abile truccatrice che porta con disinvoltura, a seconda delle schede, 117 o 136 chili.

La vittoria olimpica di Rio è stata la prima di una lanciatrice di peso americana.

Ryan Crouser, maxi-virgulto di una famiglia di querce che hanno passato il tempo a lanciare o a scagliare ogni genere di attrezzi (il padre Mitch ha chiuso la carriera con più di 20 nel peso e più di 67 nel disco, lo zio Dean più di 21 e quasi 66, l’altro zio Brian 95,10 con il vecchio giavellotto) è stato il primo  portare a casa titoli e piazzamenti importanti (oro a Rio, argento a Doha in fondo alla più clamorosa competizione nella storia della palla da 16 libbre) e una collezione sterminata di botte oltre  22 metri.

Il record indoor è suo, 22,82, quello all’aperto di Randy Barnes trema.

Sin da quando gareggiava tra gli under 20 Armand Duplantis ha polverizzato il record di famiglia, un primato di tutto rispetto, il 5,80 di papà Greg che, oltre ad allenarlo, ha filmato, passo dopo passo, salto dopo salto i i progressi del piccolo Mondo prima nel giardino di Lafayette, Lousiana, poi nelle palestre e sulle pedane del pianeta studentesco americano, primi palcoscenici dello svedese volante (mamma Helena Hedlund, discreta eptatleta, lo ha consigliato nella scelta), asceso sino a 6,18.

Con Charlotte Rampling, elegante, spesso ambigua, dalla vasta filmografia (inevitabile scegliere “Portiere di Notte”, “Zardoz” e il recente “45 anni”: formidabile lei, formidabile Tom Courtenay), il processo si interrompe: nessuna impresa atletica dalla figlia di Godfrey, tenente colonnello d’artiglieria, uno dei più coraggiosi protagonisti di memorabili staffette del miglio britanniche, quella del ’32, argento a Los Angeles (Godfrey ricevette il bastone da Lord Burghley) e quella d’oro di Berlino ’36.

Dopo esser venuto a sapere che gli americani avevano lasciato a riposo Archie Williams, oro nei 400, Godfrey disse: “Possiamo batterle, quelle canaglie”.

La sua seconda frazione fu un arrembaggio. Morì un mese dopo aver raggiunto i 100 anni e, al funerale, la Regina mandò i reali trombettieri.

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