Enzo Rossi - Primo Nebiolo (foto archivio FIDAL)
Enzo Rossi - Primo Nebiolo (foto archivio FIDAL)

Al tempo di Enzo Rossi, i telefonini non esistevano e internet era una faccenda per pochi intimi, rari adepti.

Eppure, sul suo ponte di comando, una scrivania al terzo piano di via Tevere, allora quartier generale della Fidal di Primo Nebiolo, teneva sotto controllo la situazione (gli allenamenti, lo stato di forma e di salute, gli impegni) con lo strumento, che oggi pare antidiluviano, del “fisso”, con la lettura attenta, dopo aver inforcato i mezzi occhiali, dei risultati italiani, europei, mondiali.

Quanto fossero attendibili, in quei tempi cartacei e non digitali, non è né noto né chiaro, ma per lui erano sufficienti per fare le sue scelte, per organizzare i suoi azzardi.

Enzo aveva il titolo di Direttore Tecnico ma era sopratutto uno stratega. Disinvolto, spregiudicato dice qualcuno, attento. A questo atteggiamento faceva contrasto un abbigliamento che poteva definirsi eccentrico, a volte persino clamoroso.

E’ probabile che per la scelta dei colori, dei modelli, avrebbe ricevuto l’approvazione di Oscar Wilde

In questi addii, in questi “coccodrilli” sono i fatti che contano: in uno slancio letterario – il fatto non gli era frequente – Enzo disse di nutrire il sogno di un giorno di inizio estate.

Era il giugno dell’86, lunga vigilia del Europei dell’86 e la visione, rivelata senza ritegno, era occupare per intero il podio dei 10000. Il 26 agosto, al Neckastadion calato in un’atmosfera di primo autunno, l’impresa riuscì nella serata del Mei-Cova-Antibo, una piccola raffica che nessuno ha dimenticato.

Era un abile giocatore di scacchi, capace di mosse efficaci che nascevano da contatti, da promesse, da corti spietate.

A Mosca ’85, finale di Coppa Europa, quando la permanenza dell’Italia in alto, poco sicura, doveva essere sudata, sottopose Cova a un assedio: doveva correre i 10000, Alberto li corse e li vinse.

A questo punto doppiare diventava vitale. La trattativa andò a buon fine, Cova vinse anche i 5000 e quel bang-bang rimane ben fissato nelle statistiche della vecchia coppa, e non solo in chiave azzurra.

Scartezzini gettato nella mischia nella magnifica finale di Coppa Europa a Torino ’79, Mennea convinto a correre una frazione lunga un giro agli Europei di Praga dell’anno prima: colpi di mano che lasciavano il segno.

Enzo aveva intuito, istinto, odorava l’aria come un vecchio marinaio e capiva dove tirava il vento giusto.

Di tante immagini che chi ha avuto a che fare con lui porta dentro, rimane una vecchia foto bianco e nero: un giovane Ezio, magro sino all’osso, in tunica e lancia, comparsa in un tempo in cui Cinecittà celebrava i suoi anni ruggenti sfornando quelli che gli americani etichettarono peplum.

L’inizio di una lunga parabola che, attraverso le esperienze al C S. Esercito, lo avrebbe portato a vivere da protagonista i migliori anni della sua vita e dell’atletica italiana.

Come in una cristallizzazione temporale, per molto tempo quel suo aspetto, un cocktail tra l’autorevole e il popolano, non mutò, anche negli anni del meriggio, come se quella figura dovesse durare per sempre.

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