Quando, quasi due anni fa, se n’è andato Roger Bannister, ho guardato con maggiore intensità e con commozione il più bel regalo che mio figlio mi abbia fatto: sopra la mia poltrona preferita – ikea – ho appeso la foto dell’Impresa, con autografo originale.
Quella sera ho dovuto darmi una scossa, ricorrere alla forza (apparente) delle parole e del pensiero: sir Roger non morirà mai, mi sono detto. Un mini trattato di ars consolatoria.
Se Elisabetta II ha festeggiato otto anni fa il Giubileo di Diamanti del suo interminabile regno lasciando a rispettabile distacco l’ava Victoria e l’hannoveriano Giorgio III, prima di spegnersi, a 89 anni, Bannister aveva superato i due terzi di secolo passati dal 3’59”4 di Iffley Road, 6 maggio 1954, quando diventò il primo a percorrere un miglio sotto i quattro minuti, come ricorda, con l’asciuttezza degna delle grandi imprese, la targa posta nello stadiolo nel sobborgo di Oxford.
Il tempo non figura, è secondario. Conta l’impresa, il confine superato.
Nella sua lunga storia, Britannia ha saputo abilmente celebrare – sino a renderli leggendari – fatti che altrove sarebbero stati sbrigati in poche righe: la fuga da Kabul in una notte da tregenda, la carica dei Seicento a Balaklava, la resistenza del drappello gallese guidato dai tenenti Chard e Broomhead davanti agli impi (reggimenti) zulù, il sacrificio di Gordon a Khartoum, la missione spionistica, diventata saga, di Lawrence e dei suoi irregolari arabi.
L’Impero ebbe eroi che finirono su stampe che, in ogni casa vittoriana, edoardiana e più tardi sotto il regno di Giorgio V, ebbero spazio sopra i caminetti e ne segnarono l’apogeo, il momento più alto di espansione, quando un quarto del mondo sugli atlanti del tempo era colorato in rosa carico.
Britannia dominava sulle onde e non solo sulle onde.
Anche l’impero avviato al meriggio, ormai non lontano dalla liquidazione, ebbe un volto, trasfigurato nello sforzo, quello di Roger Bannister che – come i protagonisti di Chariots of Fire – nel momento più alto, nel nitore assoluto della condizione, pose fine alla giovinezza e entrò nel’età adulta, quella delle consapevolezze, degli obblighi.
Altri tempi, altri campioni: oggi l’età agonistica viene trascinata sino all’estremo o, se interrotta, sfocia in un ripensamento, in un ritorno spesso impietoso, grottesco..
A 25 anni Bannister diventò l’esploratore di un mondo nuovo – come un anno prima era toccato in sorte a Edmund Hillary, anche lui successivamente Sir, nella sua ascesa verso il cielo assoluto degli 8832 metri dell’Everest – piegò l’aussie John Landy, che aveva concesso solo 46 giorni di vita al record, nel formidabile scontro ai Giochi del Commonwealth di Vancouver, conquistò il titolo europeo sulla pista del Wankdorf di Berna.
Chiuse lì, dedicandosi alla professione medica, specializzandosi in neurologia, dedicandosi alla ricerca.
“Sono stati quei quarant’anni i momenti più alti della mia vita”, ripeteva nel cottage di Oxford, non lontano dal teatro del suo capolavoro, dove demolì di due secondi il record dello svedese Gunder Hagg e andò oltre quella soglia che qualcuno aveva paragonato alle Colonne d’Ercole, al pianeta proibito.
Di quel pomeriggio ventoso in un’agra primavera, rimangono i ricordi di Roger che allontanò i fantasmi del dubbio, viene riesumata la mano prestata da due amici: Chris Brasher, due anni dopo a Melbourne olimpionico nelle siepi e Chris Chataway.
L’ultimo quarto di miglio corso sotto il minuto, il suo tormento e la sua estasi documentati da un fotografo rimasto anonimo (un quadro storico, pare: i compagni festanti, un giudice che si commuove, un altro che annota compunto, Harold Abrahams schierato a bordo pista, sull’ultimo rettilineo).
Il meraviglioso annuncio dello speaker Norris McWhirter “Signore e signori, questo è il risultato della gara numero 9, il miglio: primo, il numero 41, Roger G. Bannister dell’Amateur Athletic Association e già studente dei college Exeter e Merton, con un tempo che rappresenta un nuovo record della pista e del meeting e che, dopo esser stato sottoposto a ratifica, sarà un nuovo record inglese, britannico, su suolo britannico, europeo, dell’Impero britannico e del mondo. Il tempo è 3’…”
Il ruggito della folla, non grande, coprì il numero dei secondi e dei decimi, disperse per un lungo attimo l’ufficialità di quel 3′59″4. “Tre” significava l’atterraggio nel mondo nuovo.
Il giorno dopo la notizia uscì in prima pagina sul Times. Su una colonna. La moderazione è la misura di tutte le cose. In tempi di isteria diffusa, una lezione che ormai nessuno può intendere.
Ventitré giorni dopo ebbe ancor meno spazio la prima incursione, per quattro decimi, sotto i 5’: il luogo era Birmingham, l’occasione il campionato delle Midland, l’autrice Diane Leather, poi signora Charles che ha lasciato questo mondo sei mesi dopo Bannister.
Il 21 giugno, a Turku, la città di Paavo Nurmi, l’australiano John Landy corse in 3’57”9: dopo quarantasei giorni cancellò un record, non il Record.
Bannister avrebbe ribattuto un mese dopo ai Giochi del Commonwealth di Vancouver, piegando l’australiano in fondo al primo duello dal robusto supporto mediatico.
Il faccia a faccia venne immortalato con la fusione di un gruppo statuario con due figure. “La moglie di Lot si voltò e divenne di sale, io mi voltai e divenni di bronzo”, sorrise Landy, avviato verso i 90 anni, quando vide l’opera e ripensò al momento del sorpasso.
“Sir Roger – gli chiesero molti anni dopo – quel record è stato il momento più alto della vostra vita?”. “I momenti più alti della mia vita sono i quarant’anni che ho dedicato alla neurologia”.
Erano altri tempi: Sir Roger medico e ricercatore, sir John governatore dello Stato di Victoria. Prima dei Giochi di Londra, Bannister, che il 23 marzo aveva raggiunto gli 85 anni, portò la fiaccola sul luogo del suo capolavoro.
Una targa semplice, a sfondo blu, spiega: “Qui il primo miglio sotto i 4’ venne corso il 6 maggio 1954 da Roger Bannister”. Il linguaggio scarno per le cose grandi.
Mai riuscito a metter le mani sulla moneta da cinquanta penny che venne fusa per il 60° anniversario. Non l’avrei mai spesa.