In quel tempo lontano, Internet era la Domenica del Corriere e l’immagine, che Walter Molino sceglieva, poteva essere una mamma coraggiosa che salvava il figlio dal treno accorrente, un carabiniere che non conosceva il timore del pericolo, ed era quella che, almeno per una settimana, si fissava nella galleria delle sensazioni.
Per il numero che andò in edicola nella prima settimana del giugno ’61, Molino scelse un fatto sportivo capitato qualche giorno prima e disegnò un gruppo di marciatori attoniti: davanti alla punta del piede del battistrada, andava a conficcarsi un giavellotto.
Il direttore del giornale dello sperduto paese nella prateria dice al senatore James Stewart, nelle scene finali di “L’uomo che uccise Liberty Valance, “nel West tra leggenda e cronaca stampiamo la leggenda”.
Non solo nel West. E così, sessant’anni dopo, c’è chi sostiene che andò proprio così e c’è chi confessa che non si trattava di una gara di marcia bensì di mezzofondo, ma tutti ammettono che nessuno rischiò di essere infilzato dal giavellotto scagliato, sino a raggiungere la sesta corsia dell’Arena, da Carlo Lievore, vicentino di Carrè, 23 anni e mezzo, in fondo a una parabola non alta, violenta e tesa, una decina di metri più in là del suo primo tentativo, 76,91, misura ampiamente sufficiente per strappare punti importanti in quella fase interregionale del campionato di società.
Quello si rivelò il giorno perfetto per l’uomo dal braccio d’oro. E così alle 17,25 l’Held (manufatto in alluminio che portava il cognome di Bud, l’americano che per primo violò il muro degli 80 metri) decollò per volare meravigliosamente a lungo e la prima misurazione diede 86,71, record del mondo, quasi settanta centimetri più di Al Cantello, l’americano che chiudeva la rincorsa con un tuffo, 86,04 a Compton giusto due anni prima, il 5 giugno 1959.
All’Arena fu piantato un picchetto e attorno a esso dai giudici venne montata la guardia per la seconda definitiva misurazione effettuata con la fettucciona da 100 metri. I misuratori al laser appartenevano alle cronache marziane. Diede 86,74 e i centimetri di progresso diventarono 70 tondi.
Chi comincia ad avere molti anni sulla groppa, ricorda quel record con stupore e orgoglio. L’Italia aveva avuto grandi marciatori, formidabili mezzofondisti, eccellenti ostacolisti, aveva vinto i 200 olimpici con Livio Berruti nove mesi prima, ma pensare a un azzurro primatista mondiale del feudo degli scandinavi, dei russi, degli ungheresi, dei polacchi e dello stravagante americano, pareva appartenere a un repertorio di accesa, spericolata fantasia.
“Non credevo ai miei occhi”, fu il commento di Carlo che aveva trovato il buco giusto nell’aria e il magic moment: dopo il record del mondo, indirizzò a 85,50. Poi disse che poteva bastare. Non è noto come abbia festeggiato. Con semplicità, non c’è dubbio.
Lui e suo fratello Giovanni erano gente semplice, di razza contadina. Li avesse incontrati Bernardo Bertolucci avrebbe affidato a Giovanni, più alto e con il volto ossuto, la parte di Sterling Hayden, il capostipite dei Dalcò, e a Carlo quella di Olmo.
Con qualche variante orientale, venivano dalla stessa terra di Adolfo Consolini: chi da generazioni usa le braccia, possiede nel patrimonio genetico abilità articolari vietate ai sedentari e, direbbe Brera, agli stortignaccoli.
Giovanni era più sottile, Carlo muscolato il giusto, in modo naturale, e al primo impatto, forse per i capelli e gli occhi, poteva apparire un figlio di un nord più estremo rispetto alle campagne beriche.
Quei due nomi comuni, e al tempo stesso regali, segnarono una cronologia che pare un regno: dal ’56 all’83 un Lievore fu primatista italiano.
Solo la famiglia Ottoz vanta un predominio più lungo, 38 anni, dal ’64 al 2002. Con una differenza. Eddy non sfidò mai in un faccia a faccia Laurent, mentre i due fratelli, divisi da cinque anni, ebbero occasioni per fronteggiarsi lasciando molte pagine e una chanson de geste, lo scontro padovano del 27 aprile 1958, quando Giovanni ritoccò di tre centimetri il record che Carlo aveva portato a 74,00 l’anno prima.
Il più giovane rispose subito con 74,98, ma Giovanni risolse con 78,83, prima di portarsi a 79,98, nei pressi, quasi millimetrici, di quel muro che avrebbe superato un anno e mezzo dopo a Roma.
Giovanni stava vivendo i suoi giorni migliori, iniziati a Melbourne, quando fu sesto (ancor oggi miglior piazzamento di un italiano alle Olimpiadi) nella gara che consegnò al norvegese Egil Danielsen la preziosissima accoppiata oro olimpico e record del mondo, 85,71.
Carlo era il bocia, ma non lo sarebbe stato a lungo. Meno elegante, ma più potente di Giovanni, si sarebbe impossessato del record italiano e di famiglia nell’anno che fu sua breve delizia e dura croce, il 1960, la stagione dei Giochi di Roma.
In forza dell’81,14 raggiunto a Mosca il 3 luglio e soprattutto dell’83,60 toccato quattro settimane dopo su una pedana che conosceva bene, quella di Schio, era finito nell’area di coloro che potevano aspirare a una medaglia.
Il fulmine cadde su una caviglia, distorcendola, obbligandolo a due settimane di gesso e rabbia. Volle ugualmente tentare la sorte e finì nono, capace di sparare di braccia a 75,21.
In una gara contrappuntata dalle defaillance di Janusz Sidlo e di Al Cantello (incapaci di ripetere nei lanci che contavano quanto avevano ottenuto in qualificazione), ebbe la meglio il sovietico d’Ucraina Viktor Tsibulenko, che con 84,64 non andò lontano dal limite mondiale.
Il fatto che il tedesco (dell’est) Martin Krueger conquistasse la medaglia d’argento con 79,36 aumentò il disappunto di Carlo che non smise di considerare l’appuntamento dell’Olimpico la grande occasione mancata della sua carriera.
Qualcuno, usando a piene mani l’ingrediente del senno di poi, sostiene che il record mondiale dell’Arena costituisca un tentativo di vendetta sul destino.
L’espediente psicologico-letterario si definisce da sé, un espediente: semplicemente, quel giorno, Lievore trovò quella grazia che, in una specialità nota per gli alti e bassi esibiti spesso anche dai suoi maggiori interpreti, viene offerta di rado. A chi è fortunato, una volta nella vita.
Sesto agi Europei del ’62 (il suo miglior piazzamento in manifestazioni di largo respiro), Carlo avrebbe assistito alla sua detronizzazione due anni dopo quando, al Bislett di Oslo, Terje Pedersen avrebbe spostato nel giro di due mesi il record mondiale prima a 87,12, poi a uno stupefacente 91,72.
Quando se n’è andato, nel 2002 Carlo non aveva ancora 65 anni.
Quella sera, quando arrivò la notizia, tanti dei vecchi appartenenti alla consorteria dell’atletica si commossero finendo dentro un labirinto di immagini, di sensazioni, di ricordi: Carlo all’antistadio di Torino, con la tuta del C.S. Fiat, che allunga consigli a giovani che mai lo avrebbero insidiato e a una giovane italo-somala dagli occhi di velluto – Zarah Bani – che qualcosa avrebbe appreso del suo formidabile magistero.
Carlo che spedisce verso il cielo la sua essenziale lancia. Il nome di Carlo stampato in mezzo a quelli dei finnici, dei baltici (”solo noi possiamo lanciare il giavellotto”, diceva Janis Lusis che da poco ha raggiunto nei Campi Elisi), degli altri grandi di un gesto tra i più nobili e antichi.
Sino al ritorno obbligato a quel giorno all’Arena. In quel clima di celebrazioni del 100° anniversario dell’Unità d’Italia.
Lievore ne divenne un simbolo.