Arrivo 200 metri Olimpiadi Roma 1960 (foto archivio)
Arrivo 200 metri Olimpiadi Roma 1960 (foto archivio)

Roma 1960, il Giubileo dei Diamanti non è lontano. Un “Come eravamo”, ma anche un “Come erano”: i campioni veri, sottili, muscolati il giusto, magari con qualche rotolo di ciccia, umani, dilettanti veri, dilettanti di stato, i Giochi senza sponsor e senza mercanzie, i numeri attaccati con gli spilli da balia, il logo classico (una lupa su un capitello), un mondo diverso, un entusiasmo genuino, la naturalezza spontanea della fiaccolata che chiuse le Olimpiadi la sera dell’11 settembre 1960: arrotolare giornali creò torce, accese il buio, concepì un addio senza strazio.

E così quella foto, non Berruti, non Bikila, è finita sulla copertina di “Roma Olimpica, la meravigliosa estate del 1960” di Augusto Frasca e Vanni Loriga che in questi giorni di infinito isolamento sono andato a estrarre da uno dei tanti scaffali di casa.

Immagini, fotogrammi, ricordi, ritagli: per chi è appassionato di bric-à-brac. Se ne scoprono di cose, come le 106 ore di diretta Rai senza interruzioni pubblicitarie, Carosello a parte.

Roma, 25 agosto 1960, cerimonia d’apertura: Giulio Andreotti aveva 41 anni e, Presidente del comitato organizzatore, si concesse il vezzo di un discorso di venti minuti: conoscendo il suo stile, un po’ troppi.

La Germania era una sola, rimessa assieme per l’occasione ma ancora senza muro; l’Iran era quello dello Scià, non la Repubblica dei Santi; le Indie Occidentali erano una federazione che riuniva le isole caraibiche dalle Bahamas a Trinidad; di cinese c’era Taiwan di Chang kai shek, non la repubblica sterminata di Mao; il Ghana non era più la Gold Coast e così sfilò con la nuova bandiera e la fresca libertà: la decolonizzazione era in atto.

Sfilò anche il Sudafrica, in procinto di venir cacciato dalla famiglia olimpica. E quelli dell’Etiopia avevano volti severi: erano finiti nella capitale del paese che una generazione prima li aveva assaliti, conquistati, depredati dei loro simboli. Fu all’obelisco di Axum che Abebe lanciò l’attacco decisivo.

Volti: Le Corbusier al fianco di Nervi, ad ammirare la struttura del Palazzo dello Sport dell’Eur; Rock Hudson assediato da ragazzine in delirio e ignare; Bing Crosby, Grace Kelly, Walt Disney, Elisabeth Taylor, Jesse Owens, Vittorio Gassman mischiati al pubblico dell’Olimpico, non confinati in una tribuna Vip che non esisteva; Maria Callas che lancia un’occhiata triste alle regate olimpiche nel golfo di Napoli, tifosa molto speciale, al fianco di Aristotele Onassis, di re Costantino di Grecia, medaglia d’oro.

L’antico e il moderno: sono i due tasti su cui da mezzo secolo le dita continuano a posarsi traendo armonie come in una sonata di Mozart, semplice e perfetta.

Quattro anni dopo, a Tokyo, Kenzo Tange e gli altri architetti della “nouvelle vague” giapponese avrebbero costruito il nuovo, dato le prime forme di una successiva età all’insegna del kolossal: a Roma, solo i due palazzetti, il velodromo che dopo decenni di incuria è stato spazzato via, il Villaggio, oggi un po’ scrostato.

Giochi ambientati nella Basilica di Massenzio, alle Terme di Caracalla, a Castelgandolfo, ai Castelli, sotto i pini di Piazza di Siena (colonna sonora obbligata di Ottorino Respighi), sul lastricato della Roma antica e sui sampietrini del tempo del Papa re.

Protagonisti, simboli, rilievi statistici: 5338 atleti, rispetto ad oggi, la metà. 83 paesi, rispetto ad oggi, 120 di meno. L’Urss che trionfa nel medagliere battendo gli Usa negli ori 43 a 34, negli argenti 29 a 21 e nei bronzi 32 a 16. Juri Vlasov è l’Ercole in maglia CCCP: 537 chili sollevati.

Italia terza nel medagliere13-10-13, quota mai più toccata, davanti anche alla Germania. Un miracolo, un effetto del fattore casa, il boom al tempi del Boom, il successo preparato da Giulio Onesti e Bruno Zauli, Presidente e Segretario del Coni grazie a una politica di strutture e di occasioni offerte ai giovani, non di parole.

Chi è arrivato sino a noi – sono ancora tanti e in buona salute – rende di quei giorni una testimonianza univoca, quasi monotona: Roma offerse i Giochi di un’età dell’innocenza che si accingeva a sparire.

C’erano, nell’aria, l’allegria vera, non forzata, e la lievità sottile destinata a ispessirsi come uno smog, la gioia di stare assieme, di scambiare una di quelle tute in lana (l’acrilico era di là da venire) con un’altra tuta in lana che sarebbe stata usata – e ammirata e invidiata – al campo d’allenamento.

Fu quell’atmosfera a regalare risultati indimenticabili: i doppi record del mondo di Berruti e di Otis Davis e Carl Kaufmann nei 400, quello di Elliott nei 1500 non hanno mai rischiato le ragnatele. Come l’irriverenza di Cassius Clay, la storia di riscatto di Wilma Rudolph, il capitolo finale scritto dall’infinito Edoardo Mangiarotti. E Bikila, naturalmente.

Tute le radici portano a Roma: cinquecento anni fa un nobile romano, proprietario della domus Aurea, rinvenne, sepolto nei sedimenti dei secoli, il Laocoonte: era Felice de Fredis.

Più tardi, un membro della famiglia, Giovanni Fredi, si spostò in Francia, diede vita ai Fredy e dai Fredy sbocciarono i de Coubertin.

Sembra l’Eneide ed è la verità storica che portò il Barone Pierre a sognare Roma Olimpica ad appena dodici anni dalla rinascita ateniese del 1896. I Giochi la città li ebbe in sorte nel ’55 battendo all’ultimo ballottaggio Losanna, città olimpica dove Pierre de Coubertin giace.

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